*Il Grande Sogno di Maya - ガラスの仮面 - Glass no Kamen  - Glass Mask - Manga, Anime, Drama

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    Proseguiamo ☺️

    Capitolo 2 - Inaspettato


    Kōtaro è in fondo un ragazzo semplice.

    Lavoratore instancabile, quando si allena è capace di rimanere per ore a schiacciare diagonali e parallele, con il suo braccio destro che sventaglia veri e propri missili Katyusha.
    Forse è meno veloce e agile di Hinata ma i suoi colpi sono micidiali, rumorosi, eclatanti. Lo sono anche i suoi servizi al salto, quando li schiaccia l’aria stride al passaggio della palla, che dopo il rimbalzo sul parquet semplicemente fugge via, come se non volesse più avere a che fare con quella mano terribile. E i suoi compagni di squadra lo ammirano senza pudore, specie quando è l’ultimo a lasciare il campo. Fischiano, si gettano ai suoi piedi, lo adorano come una divinità pagana con la faccia di un gufo e il corpo di un ciclope. Solitamente, il carnevale finisce quando Atsumu Miya, che è il suo alzatore, si rompe definitivamente le palle. Anche basta!Gli dice imitando i gesti dell’arbitro che fischia la fine del set.
    Kōtaro allora capitola e accetta di andarsi a fare una doccia e nel mentre continua a saltellare e a scambiare versi strani con Hinata, l’unico che sembra capirlo davvero. Del resto, secondo Miya e Sakusa, entrambi fanno parte dello stesso regno animale.

    Dopo un allenamento, per quanto duro, Kōtaro si concede sempre
    un pasto abbondante, meglio se con i compagni di squadra.
    E poi un cinema, a volte, o un locale. O una passeggiata senza meta, per risucchiare nelle sue iridi spropositate le luci impazzite della città. Adora i colori, il casino, l’allegria senza capo né coda della sua città, adora viverci.

    E poi, a volte, ha anche una sana voglia di sesso.

    Kōtaro è semplice anche nelle questioni sentimentali. Non è innamorato di nessuno, è una specie di asceta mezzo monaco mezzo schiacciatore laterale che tuttavia tiene in grande considerazione le sue pulsioni sessuali, che rispetta e sente essere parte integrante del suo carattere così espansivo, e sa perfettamente quando dare loro sfogo e con chi.

    Tutte le volte, lui e Tetsurō Kurō si dicono che fra amici normalmente non accadono certe cose.
    Fra amici si esce a fare danni, si va a un concerto, a una festa. O semplicemente si chiacchiera sul divano davanti a una partita con una birra in mano. Insomma, non si finisce a letto insieme!
    E invece, tra loro due queste cose accadono. Accadono anche con altri, in verità, ma con Kurō è diverso, sono due perfetti scopamici (così li chiama Kenma Kozume, l’unico che lo sa - “Ma la vostra è una BokuKurō o una KurōBoku? Insomma, chi sta sopra e chi sotto?”. E loro due neanche si imbarazzano “È riduttivo!……”).

    Lo hanno fatto insieme per la prima volta, ai tempi del liceo. La loro prima volta in assoluto.

    La curiosità e la voglia poteva venirgli solo con il suo Bro, sudati dopo una partita e senza apparentemente altri desideri nei quali incanalare endorfine e adrenalina. Uno sguardo sornione, qualche battuta nell’aria da qualche giorno, un paio di commenti sulle ragazze così insignificanti che conoscevano, un paio di birre scure invece di una sana bevanda proteica e a casa di Tetsurō ci erano andati giù dritti, si erano strappati le tute di dosso, erano caduti dal letto, si erano rotolati sul tappeto.
    Avevano riso della situazione prima, dopo e durante.
    Prima perché ammettere con gioia di essere entrambi attratti dal loro stesso sesso li faceva sentire ancora più complici. Dopo perché potevano commentare il fatto compiuto senza ipocrisie.
    Durante perché… beh, giocare con Kurō senza vestiti addosso era stato come spararsi cinque set ai nazionali senza time out.

    Bro, posso fare… questo…?
    Mmm… Sì…
    E questo?
    … questo lo faccio prima io!
    Bro…. Ti piace?
    Tu che dici…
    Dico che….


    Si erano dati del tempo per capire se c’era altro oltre a ormoni e follia ma no, non c’era altro. Si volevano bene e basta e farlo era talmente divertente e liberatorio che ci erano ricaduti.
    Ci ricadevano.
    Spesso.
    Per questo quel sabato sera, a Sendai, Kōtaro telefona al suo Bro, che però lo manda in bianco. Ci può stare, se ha da lavorare - e anche lui non è a Sendai per svago ma per una questione di ingaggi a cui peraltro non darà seguito: c’è andato solo per una semplice formalità, nei Jackals sta da dio e vuole rimanerci ancora a lungo.
    E allora decide di ripartire subito per Tokyo, prende al volo l’ultimo Hayabusa che ci mette pochissimo, ed è talmente stanco che crolla quasi subito, sente quel languore che gli fa desiderare il suo nido in pieno centro, con le finestre insonorizzate e i suoi cuscini morbidi.
    Si addormenta in una carrozza che lentamente si svuota, cullato dall’andatura uniforme del treno.

    Lo sveglia il tocco gentile del capotreno, un uomo sulla sessantina, solenne, elegante, in guanti bianchi.
    Lo ringrazia, si stiracchia aprendo le braccia, getta nella pattumiera i resti della sua cena, afferra il borsone e scende.

    La banchina è abbastanza affollata perché sul binario adiacente nel frattempo è arrivato un altro treno.
    Cammina lentamente quando all’improvviso quelli davanti a lui si fermano tutti e si allungano a guardare, come se un ostacolo fosse comparso improvvisamente a fermare il loro flusso ordinato. C’è infatti un ragazzo per terra, con un trolley rovesciato e uno zaino aperto, il cui contenuto è sparpagliato sul cemento, e sembra essere in difficoltà.

    Kōtaro è alto e piazzato, si infila fra i curiosi, sbircia e poi nota qualcosa di familiare. Deve essere la forma delle spalle, o il colore e il taglio dei capelli, o il profilo, ora che lo guarda meglio.
    La linea delle labbra, strette e tirate nei momenti difficili. Gli occhi sottili. E le sue mani che brancolano aperte sul cemento, mani che conosce benissimo.
    È Keiji Akaashi.

    Lo chiama, si avvicina, si abbassa fino a inginocchiarsi accanto a lui. Akaashi è confuso eppure, stranamente, non sembra sorpreso di vederlo.
    È Kōtaro quello sorpreso.

    Sa che quello è Akaashi eppure è diverso, una specie di Non-Akaashi.


    Più magro, dimesso, disordinato. E Akaashi è tutto fuorché disordinato: è un ragazzo che brilla per la sua organizzazione, è l’anima del Fukurodani, è il luogotenente del coach. È colui che ha sempre tirato fuori il meglio dalla sua maglietta numero 4.

    Kōtaro non è mai stato bravo con le parole perché ne dice oggettivamente troppe e tutte insieme, smonta le orecchie a chi gli sta intorno, la sua è una comunicazione irruenta e convulsa.
    E in questo momento, tutto ciò che Akaashi ha sempre rappresentato per lui si sovrappone alle sensazioni che gli dà questo strano ragazzo inginocchiato sulla banchina, che porta il suo stesso nome e che ha il potere di silenziarlo letteralmente.

    Sono almeno due anni che Kōtaro non lo vede e non lo sente. A un certo punto il suo numero non ha mai più squillato e forse sta proprio lì la causa di questo senso di estraneità nella familiarità che lo fa ammutolire.
    Due anni che improvvisamente gli sembrano infiniti. Due anni che anche lui ha contribuito a scavare perché non lo hai mai cercato.

    Tende allora le mani verso di lui e lo aiuta a tirarsi su, anzi lo prende fra le braccia e subito nota che è più leggero di come se lo ricorda. Quando, in partita, dopo un punto, lo abbracciava e lo sollevava, sentiva i suoi muscoli tonici e guizzanti, meno sviluppati dei suoi ma allenati e armoniosi. Ora invece lo sente fragile, dimagrito. Diminuito.

    Raccoglie le sue cose sparpagliate, lo convince a fermarsi con lui a bere un tè. Gli porta zaino e trolley e nel mentre lo osserva.
    Sono soprattutto le spalle a colpirlo. Sempre larghe e sottili ma impercettibilmente curve. Il suo passo è sempre tranquillo ma affaticato. Cammina a testa bassa, come se stesse cercando qualcosa che ha perso e non riesce a ritrovare.

    Kōtaro non se lo sa spiegare in maniera esauriente - di solito con le parole non è bravo neppure a parlarsi da solo, va in confusione abbastanza facilmente, ecco perché a volte si smonta e l’intera squadra lo vede afflosciarsi senza un motivo apparente - ma il suo amico Akaashi in questo istante lo colpisce dritto in un punto del suo petto che normalmente lavora in maniera meccanica (il cuore è una volgare pompa che si comprime e si decomprime, diceva il suo professore di scienze all’Accademia). Decide che, qualsiasi cosa abbia Akaashi, resterà lì con lui, nonostante sia quasi l’una di notte. Decide di aver curadi lui ma in maniera discreta, di tenere la voce bassa. Soprattutto, decide di ascoltarlo, semmai vorrà parlargli.

    In stazione, entrano nel primo bar che trovano aperto. Un bar per viaggiatori anonimi, neon sparati a palla e musica commerciale, nonostante l’ora tarda.

    Una cameriera che sbadiglia porta al loro tavolo un vassoio con il tè e un paio di sandwich e poi sparisce.

    Kōtaro intanto si vede dall’esterno e non si riconosce. Normalmente, avrebbe già preso con lui un normalissimo discorso sul più e sul meno, adatto a una conversazione fra vecchi amici che il caso ha fatto ritrovare, ma non riesce a trovare un pretesto per iniziarla.

    La sua mente visualizza una specie di gomitolo del quale non trova il capofilo, il suo cuore rimbomba di qualcosa di strano perché è strano lo sguardo di Akaashi. Kōtaro non è bravo con le parole ma l’istinto lo avvisa che il suo amico sta ancora male e forse non è solo per l’emicrania.
    E, cosa inaudita per lui, Kōtaro continua a restare in silenzio.

    È Akaashi il primo a parlare.

    “Grazie, Bokuto-San. Un tè caldo era quello che mi ci voleva.”
    “Ma ti pare, Akaashi! Sono pur sempre un tuo senpai!!” E via sgranare gli occhi e a puntarsi il pollicione sul petto.
    Kōtaro sente lentamente riaggiustarsi la sintonia con il suo solito io, il chiacchierone infinito, e il motivo è il sorriso appena accennato ma infinitamente dolce di Akaashi, che gli fa sorridere anche gli occhi.

    Quegli occhi infatti non sono cambiati, sono sempre sottili e blu, pacati. Kōtaro li accoglie nei suoi, dopo anni in cui praticamente li ha visti solo in pessime foto caricate sulla chat del Fukurodani e poi neanche più in quella.
    Sotto quei neon sono naturali, bellissimi. Gli sono mancati.

    La volgare pompa intanto accelera ancora.

    “Beh… allora come te la passi?”
    “A parte l’emicrania? Bene…”
    “Ma non sapevo che ne soffrissi! Voglio dire, per due anni siamo stati ins… cioè abbiamo giocato insieme, dormito nella stessa stanza…”
    “In quei due anni non ne ho sofferto quasi mai.”
    “Già, me ne sarei accorto… anche se di solito eri tu quello che in generale si accorgeva di tutto…!”
    “Mi venivano soprattutto durante le vacanze o quando viaggiavo con i miei. Quando ero… lontano, insomma…”
    “E ora che siamo vicini? Come ai vecchi tempi!!” Tuona Kōtaro.
    La risposta che si aspetta è qualcosa del tipo e ora sto meglio ma l’emicrania mi ritornerà presto se non abbassi il volume, Bokuto-san e invece Akaashi risponde con un filo di voce chiudendo gli occhi “Continua a parlarmi, Bokuto-san.”
    Kōtaro allora non se lo fa ripetere due volte e lo sommerge di parole, letteralmente.

    Gli racconta di tutto, di più. Il capo del gomitolo è finalmente nelle sue mani e comincia a dipanarsi. Gli parla dei Jackals, della nazionale. Di come vive, dei vecchi compagni di squadra. Apre i cassetti della memoria e tira fuori di tutto, a mani basse.
    La Golden Week, le partite di qualifica, quel giorno che aveva dimenticato come si schiacciava una diagonale.
    Le sue depressioni estemporanee, passate alla storia del club di pallavolo del Fukurodani.
    La grigliata con il Karasuno, lo Shinzen, il Nekoma e l’Ubugawa.
    La sera in cui faceva freddo e Akaashi lo ha fatto rientrare in albergo perché non si ammalasse.
    E lentamente, con naturalezza, all’inizio senza rendersene conto, Kōtaro inizia a tirare fuori storie e ricordi che riguardano loro due soltanto.
    Ne è già consapevole, a modo suo, a livello istintivo, ma è mentre ne parla che comprende l’estensione di Akaashi nella sua vita, quanto sia ancora presente e importante.
    E un sentimento inaspettato si infila fra quelli che lo riguardano e a cui è già abituato: prova una terribile nostalgia. Gli manca anche se è lì, di fronte a lui, avvolto da un mistero insondabile, e sembra maledettamente fragile, talmente fragile che teme che la sua voce potente possa incrinarlo.

    Capisce poi che anche Akaashi gli sta parlando ma solo con gli occhi, i quali pur restando dolci si fanno impercettibilmente sempre più lontani ogni minuto che passa. È come se qualcosa lo stesse trascinando nuovamente in stazione, verso un binario qualsiasi che lo aspetta per portarlo chissà dove. Anzi, ci sta già andando chissà dove. È il posto da dove è venuto, il posto in cui ha vissuto da solo per tutti quegli anni.

    E a quel punto, Kōtaro si ferma, punta le mani sul tavolo e fa tremare le tazze ormai vuote.
    E poi glielo chiede, diretto e serio: “Keiji-san… che cos’hai?”


    Shoyo Hinata, dopo aver passato due anni in Brasile a giocare a beach volley, viene preso dai Jackals. La squadra è molto forte, grazie anche alla presenza di Miya, alzatore, e Sakusa, schiacciatore. I ragazzi si conoscono tutti dai tempi del liceo, quando si affrontavano al Torneo Nazionale.

    Kenma Kozume è il miglior amico di Tetsurō. Ex alzatore del Nekoma, dopo il liceo lascerà la pallavolo e diventerà esperto di videogiochi e influencer.


    (Continua…)
  2. .
    Ciao :bye: .
    Ecco lo spin off della storia pubblicata qualche giorno fa, dal titolo Di gatti, dinosauri e chiari di luna, ma si può leggere anche da sola.
    Siamo sempre nel mondo Haikyuu e i protagonisti sono Kōtaro Bokuto e Keiji Akaashi.
    Kōtaro e Keiji giocavano al liceo nella stessa squadra, il Fukurodani, rispettivamente schiacciatore laterale e alzatore.
    Io me li immagino esattamente dieci anni dopo il liceo - come per Tetsurō e Kei nella storia "principale" - della quale condividono cronologicamente gli stessi momenti.

    Come per le altre storie legate a questo fandom, qualche avvertenza d’obbligo: anche in questo caso, intreccio shonen-ai, linguaggio in minima parte “esplicito” e qualche tematica delicata.

    Per chi apprezza e ha domande sulla storia, son qua :bye:




    Titolo: Il dio della pioggia

    Autore: Bathsheba Everdene

    Protagonisti: Kōtaro Bokuto e Keiji Akaashi

    Breve Descrizione: Un incontro imprevisto e quel che viene dopo

    Numero di Capitoli: 6

    Contiene Spoiler: Per chi non ha letto "Haikyuu", sì

    Contenuti Erotici: Accennati







    Capitolo 1 - Con i guanti bianchi


    Triptano, pensa Keiji Akaashi mentre uno sbadiglio gli regala uno spasmo doloroso lungo lo zigomo.

    L'aura gli accarezza già la parte destra del viso e fra meno di quarantotto ore pioverà, ne è certo.

    Soffrire di emicrania, in fondo, è come avere capacità divinatorie.

    O forse, più semplicemente, è come avere una stazione barometrica trapiantata nel cervello? Fatto sta che ogni volta che Keiji accoglie il mostro in uno dei suoi emisferi, quello poi gli regala la pioggia: sono infatti gocce salate di dolore quelle che gli scivolano dall’occhio lungo la guancia e che preludono alle lacrime che cadranno dal cielo.

    Gli viene in mente Emily Tallis, in Espiazione. La sua emicrania descritta da Ian McEwan in maniera sublime come “una pantera in gabbia che si sposta indifferente alla sofferenza per il solo fatto di essere sveglia, per noia, per muoversi e basta, o per nessuna ragione, e senza alcuna consapevolezza”.

    Keiji odia la sua emicrania ma ne adora comunque le potenzialità letterarie. La sua, però, non è rappresentata tanto da una pantera quanto da un serpente, un serpente colorato che entra con prepotenza nella sua testa e scivola finché non raggiunge quel punto esatto che inizia poi a pulsare e che Keiji vorrebbe estirpare con le sue stesse mani.

    Piange senza volerlo, senza saperlo, quasi.

    Si asciuga le lacrime con un fazzoletto che ha in tasca, le soffia via dal naso mentre cede a un altro sbadiglio e con mano impaziente fruga nello zaino.

    Non ha la forza di guardarci dentro e le dita allora vagano e faticano fra gli appunti, il tablet, i resti di un panino, un libro, finché non trovano sul fondo una scatolina di cartone con una scritta stupida sopra, come lo sono tutte le scritte sulle scatole dei farmaci.

    La apre e tira fuori un blister tutto accartocciato e sprimacciato, che però contiene per miracolo un’ultima pasticca. La promessa della redenzione, la radice a cui afferrarsi mentre il terreno sprofonda.

    La manda giù a secco e aspetta. Serpente o pantera, quella è la gabbia, calata dall'alto sul mostro.

    Effetto rapido.

    Passano quindici minuti e il malessere si attenua, anche se non sparisce. Il grilletto non scatta più ma il suo sistema nervoso rallenta e la visione a destra resta offuscata anche se le lacrime cessano.

    Fra meno di quarantotto ore pioverà.
    Fra meno di quaranta minuti arriverà in stazione.
    Oggi sono due anni senza Midori.

    Sua sorella non aveva mai sofferto in vita sua di emicrania, eppure quando a Keiji veniva l’aura la sentiva anche lei.

    Capita, a volte, tra fratelli.

    Capita anche di morire e sopravvivere, e Keiji è il sopravvissuto, la sua aura in questo è una prova incontrovertibile.

    Anche la fortuna di aver trovato quell’ultima pasticca è una prova, la fortuna di non esserne sprovvisto, la fortuna di non aver attraversato la strada, come Midori, nel preciso istante in cui una macchina impazzita le veniva incontro, partita chissà quanti anni prima per raggiungerla proprio lì.

    Per nessuna ragione.

    Come la pantera della signora Tallis, ma più veloce.

    Quando sua madre lo aveva chiamato per dirgli di Midori, Keiji era in ufficio e era corso veloce in ospedale pur sapendo che il grilletto era ormai scattato, che la pantera era balzata con le fauci aperte e che la morte aveva preso ciò che doveva prendere. Era inevitabile, dopotutto si trattava di uno schianto ad almeno 80 km orari e prova ne era la lunga striscia di pneumatici sull’asfalto, sfumata verso la fine, come il tratto spazzolato in un'opera di calligrafia.

    Keiji aveva ragionato subito in termini di probabilità, per far sì che la disperazione non lo ingoiasse subito con un boccone solo, e aveva deciso che si era trattato sicuramente di un caso: non c’era stato un accanimento del destino, non si era trattato di sfortuna ma di una somma casuale di eventi che si erano trasformati in un fatto.

    È un fatto anche che Keiji abbia sofferto di depressione, un fatto naturale e necessario.

    È naturale che per un certo periodo di tempo abbia lavorato poco perché a corto di idee, è naturale che la sua casa editrice lo abbia messo a correggere bozze in un ufficio distaccato, per fargli cambiare aria. È naturale che diverse volte si sia svegliato di notte sudato e con il cuore in gola, sognando di guidare quella macchina e di sterzare. Di disegnare un tratto nuovo sull'asfalto.

    È naturale che abbia tagliato i ponti, finto di avere impegni, cambiato telefono, cancellato numeri.

    Un fatto a tempo indeterminato con cui ormai convive senza problemi.

    Si alza per andare alla toilette a sciacquarsi il viso.

    Il bagno della sua carrozza è fuori servizio ma quello della carrozza a fianco funziona ed è pulito - meno male, perché l’emicrania accentua la sua percezione dei cattivi odori.

    A quell’ora il treno è semivuoto, in parecchi sono già scesi.

    Si sciacqua il viso, esce dal cubicolo e naviga a ritroso per tutta la carrozza, sballottato come su di una scialuppa in mare aperto. Il triptano fortunatamente ottunde i sensi e anche i riflessi vagali, per cui la nausea è sotto controllo.

    Accade allora qualcosa che ha sempre a che fare con gli eventi che si sommano casualmente e si attestano poi come fatti.

    È un fatto che nella carrozza dopo la sua, verso la coda del treno, ci sia Kōtaro Bokuto, con la sua tuta dei MSBY Jackals, che dorme occupando quasi due posti. Keiji si ferma reggendosi con una mano al poggiatesta del sedile di fronte e resta in muta contemplazione di ciò che ha davanti.

    Kōtaro è immenso. Una gamba allungata sotto il tavolino, l’altra piegata e aperta, a mostrare l’interno della coscia, tesa e muscolosa. Le spalle sono rilassate, larghe. Accoglienti.

    La testa è reclinata verso il finestrino, dalle orecchie scende il filo degli auricolari. Le braccia, massicce, sono incrociate sul petto.

    Quando dorme è serio. Solenne, quasi.

    Il suo borsone giace sul sedile di fronte. Accanto, una busta di carta di una nota catena americana di caffè e dolci a buon mercato.

    Che schifo, ma ci può stare, Kōtaro è goloso.

    Keiji resta immobile e ringrazia il triptano perché gli rallenta tutto (tutto tranne il cuore, che corre esattamente come quel treno) e lo salva dalla tentazione di allungarsi su di lui e di svegliarlo con un colpetto sulla spalla, perché l’orologio dice che il treno è quasi arrivato a Tokyo e Keiji quando si tratta di Kōtaro si preoccupa sempre. Per un lungo istante, che lo tende come una corda, teme che il suo senpai rimanga a dormire sul treno, ma è solo un attimo. Sono finiti i tempi in cui Keiji interveniva sul continuum spazio-tempo per adattarlo a Kōtaro. Per farlo stare bene.

    Indietreggia di un passo, poi di un altro passo.

    Ci penserà il solerte capotreno, semmai, a svegliarlo con le sue mani inguantate di bianco, si è appena ricordato che il treno muore a Tokyo. Qualcuno lo salverà.

    Poi però smette di indietreggiare e si ferma.

    Keiji osserva ora le sue mani. Quante volte hanno salvato Kōtaro? Quante volte gli hanno alzato un punto, scatenando felicità, godimento, esaltazione laddove solo poco prima c’era stato smarrimento, difficoltà, estraniamento? Quante volte gli ha gridato tua, Bokuto-san!

    E perché ora è così difficile svegliarlo? Perché abbandonarlo al capotreno?

    Perché non lo ha mai cercato per dirgli di sua sorella?

    Negli anni si sono sentiti molto sporadicamente e Keiji non gli ha mai scritto nulla di personale, solo complimenti per le sue vittorie, auguri di compleanno e buon anno.

    Ha scritto soprattutto nella chat assurda che condivideva con gli ex compagni di squadra, i “🦉🏐Fukurodani Boys🏐🦉”.

    Cose da rimpatriata virtuale una volta ogni tanto, con un paio di giorni di messaggi fiume e poi silenzi lunghi mesi.

    Ti ricordi quel punto? Quella finale! Quel muro del Nekoma, il niente-tempo dei gemelli Miya!

    Sì, mi ricordo. E non provo nulla. Io non ci sono più.

    Poi, dopo Midori ha cambiato telefono e numero. Non ha importato la vecchia rubrica, solo il numero di Kōtaro che ha salvato come una reliquia ma che non ha mai chiamato.

    Un calo di tensione fa sfarfallare le luci.

    L’occhio destro è affaticato, semichiuso. Keiji si specchia nel vetro del finestrino e rabbrividisce: ha la barba cresciuta e in disordine, mezzo viso in parestesia, è vestito male. È inguardabile, se anche ci fosse una sola ragione valida per guardarlo.

    Riprende ad arretrare, quasi corre per tornare al suo posto.

    Ragiona sul da farsi: deve arrancare fino alla prima carrozza, in modo da scendere all’inizio del binario. E poi camminare veloce e perdersi nella folla. Un piano di semplice attuazione anche per uno che ha solo mezzo cervello funzionante e solo un occhio veramente aperto.

    Raccoglie zaino e trolley. Il cuore ormai va per conto proprio, l’ansia lo stritola, è come se sapesse che da un momento all’altro possa venire scoperto e catturato come un ladro. Come uno che ha da nascondere qualcosa.

    Il treno si ferma.

    Scende. Finisce in mezzo alle rapide di bagagli e gente che si saluta e si bacia. Cammina con difficoltà finché non inciampa e rovina sul marciapiede. Lo zaino è aperto e gli vola via tutto, anche gli occhiali.

    “Cazzo!” Geme. Se si abbassa e, soprattutto, se abbassa la testa, non si rialzerà mai più.

    Inizia a recuperare a tentoni gli oggetti sparsi intorno a lui, come se fosse diventato improvvisamente cieco, finché non sente una voce conosciuta che pronuncia il suo nome.

    Akaashi!
    Sei tu??


    La voce è immensa. Kōtaro ha un apparato di fonazione che produce suoni profondi e forti anche senza gridare. Possiede proprio un volume alto di suo e lo sente nonostante il vociare della folla che li circonda e la motrice dello Shinkansen Hayabusa che ancora fa rumore.

    Akaashi!

    Non ha più importanza se sia una pantera o un serpente a soffocare la sua lucidità. La mente si sintonizza su quella voce, quelle note gravi e solide che escono dalla glottide di Kōtaro e che si strutturano nella sua bocca.

    Un’ombra cala intanto su di lui, accanto a lui.

    “Akaashi, sei davvero tu?”

    Keiji geme di nuovo.

    “Non… non posso abbassare la testa. Non posso raccogliere nulla.”

    “Ti senti male??”

    “No. È l’emicrania. Ora mi passa.”

    “Aspetta, ti aiuto ad alzarti. Appoggiati a me!...”

    Ma Keiji non si appoggia, è Kōtaro piuttosto che lo agguanta e lo raddrizza. Keiji si sente improvvisamente come disarticolato, leggero. Kōtaro lo fa sedere su una panchina poco distante e si mette pazientemente a raccogliere tutto quanto è ancora disperso sulla banchina.

    Poi siede accanto a lui, con lo zaino in grembo.

    “Akaashi, dimmi ti senti meglio? Ma da dove vieni?”

    “Da Morioka. Per lavoro.”

    “Io da Sendai! Pensa che ho quasi beccato Tetsurō… ma poi… vabbè lasciamo perdere!!” Esclama a voce alta. “Da quanto tempo non ci vediamo? Il tuo numero…” Aggiunge poi ma con un tono più basso, meditabondo, guardando nel vuoto, come se davanti ai suoi occhi, anziché il cemento della banchina, ci fosse un abisso di eternità.

    Keiji si chiede la stessa cosa. Da quanto tempo non sente il suo respiro che a riposo è lento, profondo? Da quanto tempo non incrocia quegli occhi grandi, gialli, che sprizzano follia, che ti disarmano quando sono allegri e che ti sciolgono quando si fanno tristi?

    Forse da prima Midori… sicuramente, anzi.

    “Da un po’... è vero.” Risponde poi con un filo di voce. Se un po’ vale come misura. L'ha pescata da quello stesso abisso, forse.

    "Controllamo se ho recuperato tutto?...”

    Keiji si fa coraggio e abbassa lo sguardo verso lo zaino aperto. Stranamente, la testa non gli parte, l'occhio ci vede meglio. Il triptano ha fatto effetto? O non è stata piuttosto la cura, la calma, la vicinanza del suo amico a ridurre dolore e panico a brandelli? Stava fuggendo via e ora si trova sotto la sua ala. Sta meglio.

    “Dovrebbe essere tutto a posto. Grazie Bokuto-san.”

    Keiji si rialza ma canta vittoria troppo presto ed è costretto a sedersi di nuovo. È come se fosse svuotato. Se potesse chiudere gli occhi, riaprirli e trovarsi magicamente in camera sua, si infilerebbe nel suo letto così com’è adesso: vestito, sudato, con la barba, con i postumi dell’emicrania e del farmaco che ha assunto. E poi ha lo stomaco pieno di acido.

    Fa schifo. Sì, vorrebbe aver appena chiuso la porta del suo appartamento, che però è a quasi un’ora di metro dalla stazione. Anzi, è meglio che si avvii.

    Si alza nuovamente. Se cammina piano forse ce la fa.

    “Hey! Aspetta un attimo! Come ci torni a casa?” Chiede Kōtaro. Che gli afferra un polso con la sua mano grande e calda. Lo trattiene, non si fida.

    “C-con la metro...”

    “Ti va se ci prendiamo prima qualcosa di caldo?”

    “Ma è quasi l’una… non vuoi tornare a casa?”

    Kōtaro fa un sorriso che accorda perfettamente gli occhi enormi e la bocca.

    “No! Non se tu stai ancora così!”

    “Sto bene, davvero.”

    E a casa sua starà meglio, dopo una doccia. Perché se gli resta accanto, la sua vicinanza farà da calamita e gli strapperà dal cuore tutto: L'emicrania, Midori, la solitudine e qualcosa che per anni è rimasta come a pelo d’acqua, qualcosa che galleggia in un punto imprecisato della parte più giovane della sua anima.

    Non è vero che non prova nulla. Non è vero che non c’è più.

    Sono bastati dieci minuti per capirlo, con tutta l’emicrania.

    “Ascolta: ci prendiamo un tè e vediamo come va. Se ti senti meglio, ok, altrimenti a casa ti ci porta il tuo senpai!

    Kōtaro è serio, nonostante gesticoli vistosamente indicandosi con entrambi i pollici.

    Lo guardano tutti e in effetti è uno spettacolo, grande e grosso com’è.

    “Okay.” Risponde Keiji, altrettanto serio.

    Ha mille ragioni per rifiutare e nessuna ragione per accettare, ma in quel momento nella sua mente si invertono i poli della questione.

    Kōtaro lo aiuta ad alzarsi.

    “Grazie.”

    La motrice del treno si spegne di colpo e fa sì che trionfi uno strano silenzio, nel quale vibra solo un respiro profondo: quello di Kōtaro che si carica il suo zaino sulle spalle. Tira il trolley con una mano e con l’altra tiene i manici del suo borsone. Fa tutto lui, si carica anche del suo peso. E Keiji si sente leggero, finalmente. Il serpente non striscia più.

    Il capotreno con i guanti bianchi, in piedi davanti al muso del treno, si inchina al loro passaggio.


    (Alla fine del manga, di loro si sa che Kōtaro continuerà a giocare da professionista negli MSBY Jackals di Tokyo mentre Keiji andrà a lavorare per una casa editrice. Midori è invece un personaggio inventato da me.)

    (Continua)

    Edited by Bathsheba Everdene - 5/5/2024, 02:08
  3. .
    CITAZIONE (LaraTania @ 29/4/2024, 17:58)
    Sei una macchina da guerra!!!!!

    Troppo buona 🤩🙂! Questa in realtà l’avevo messa giù già da un po’, mentre il dieci anni dopo è nato a seguito della lettura dell’ultimo volume del manga, che è recentissima

    CITAZIONE
    Mi è piaciuto anche questo e lo sai che penso che tua scriva benissimo, ma dato che credo nell'importanza dei commenti, ti confesso che mi sono sentita meno coinvolta dalla storia rispetto alle precedenti, forse colpa mia che l'ho letta tutta di seguito o sono solo io stanca... non so se riesco a fartelo arrivare...mi è sembrato di essermi riempita troppo il piatto ad un bel ricco buffet e di non essermi goduta appientutte le portate (buonissime !) come quando ti vengono invece servite al tavolo ad una ad una.

    Credo di aver capito 👍, questa poi è una storia di soli due capitoli che letti insieme la trasformano in effetti in una one shot un po’ lunga.
    Anche leggere le nostre FF stanca 😆, > OT: Comunque sto lavorando allo spin off della precedente 😋: uno dei due Bro “amici di letto per diletto” lo abbiamo sistemato, ma l’altro? Che ne sarà di Kōtaro? FINE OT< Colgo il tuo suggerimento di centellinare, va benissimo 🙂

    CITAZIONE
    Comunque sei incredibile, fatti, emozioni, descrizioni, attimi che sfuggono, sono trasdotti perfettamente in parole!! Complimenti!!

    Grazie come sempre, se vi arrivano immagini ed emozioni nonostante non conosciate bene la storia, non posso che sentirmi felice 🤩, vuol dire che i personaggi sono importanti fino ad un certo punto e possono avere il volto di chiunque.



    CITAZIONE (SusinoSan @ 29/4/2024, 22:11)
    Eccomi! =)

    Bella, delicata.
    "Kei vorrebbe cambiare città, liceo, squadra, vita" :]

    Questa storia e questi due personaggi mi fanno tanto pensare alla magia degli incontri adolescenziali d'estate: tutto sembra possibile, magico, infinito 3_3
    Alchimia, cuore a mille, brividi :]

    E ti lascia un collegamento alla fiction di 10 anni dopo - Gatti, dinosauri e chiari di luna - , ti da un'idea del perchè Kei sia così sfrontatamente reticente con Tetsuro, in effetti avevano già seminato i primi sentimenti qui <3

    Bella, bella!!

    Grazie! Non è facilissimo raccontare di “quei” tempi del liceo, si rischia di cadere un po’ nel cliché del sole- cuore-amore oppure di esagerare all’opposto 😘
  4. .
    CITAZIONE (Galadriel1978 @ 28/4/2024, 10:25) 
    Molto bella anche questa piccola parentesi con un what if al presente. Direi perfettamente riuscita. Come sempre, ci regali descrizioni accurate del mondo interiore ed esteriore dei personaggi e questo ci permette di figuarci la scena davanti agli occhi e di empatizzare con loro.
    Brava :clap: :ave:

    Grazie socia 🥰.
    Sto praticando molto il tempo presente, anche e soprattutto nella lettura, regala sfumature particolari i termini di aspettativa… Superhype 🤩!
    Sono felice che il racconto sia coinvolgente anche se il contesto e la storia “madre” non sono chiari a tutti per ovvie ragioni, un conto è scrivere di e in parallelo a Gnk, un altro è andare su terreni meno praticati (ma magari mi sbaglio 😅☺️)
    Grazie come sempre 😘
  5. .
    Nella FF "Di gatti, dinosauri e chiari di luna" avevo raccontato un ipotetico incontro fra due personaggi di Haikyuu, Tetsuro e Kei, dieci anni dopo le vicende che si svolgono nel manga
    Qui siamo esattamente dieci anni prima, ai tempi del liceo, durante il campo di allenamento della Golden Week. In questo punto del manga, più o meno al volume 10, la squadra del Karasuno, nella quale gioca Kei, viene invitata a Tokyo ad allenarsi con le quattro migliori squadre della città, fra le quali il Nekoma, nella quale gioca invece Tetsurou.
    Kei è a un passo dal mollare la pallavolo perché non riesce a provare vera passione e perché, per quanto si sforzi, non sembra andare da nessuna parte.
    Il primo capitolo è in linea con gli eventi del manga, il secondo è un what if.
    Kei e Tetsuro si sono già incontrati un mese prima, quando è il Nekoma ad andare fino a Sendai, e l'inizio della storia parte da lì.

    Gli altri personaggi coinvolti sono i membri delle due squadre (mi rendo conto che sono tanti, è un manga pieno di personaggi :uhm: )
    È un tentativo di scrittura al tempo presente, che non è propriamente una passeggiata *_*

    Graditi i commenti, as usual!! :]

    Titolo:The Wild Ones

    Autore: Bathsheba Everdene

    Protagonisti: Tetsurō Kurō e Kei Tsukishima

    Breve Descrizione: Tetsurō e Kei si incontrano per la prima volta

    Numero di Capitoli: 2

    Contiene Spoiler: Per chi non ha letto Haikyuu

    Contenuti Erotici: No





    Prima parte - Notti Selvagge


    “Notti Selvagge - Notti Selvagge!
    Fossi io con te
    Notti Selvagge sarebbero
    La nostra ingorda voluttà!
    Inutili - i Venti -
    A un Cuore in porto -
    Via il Compasso -
    Via la Mappa!

    Vogare nell'Eden -
    Ah, il Mare!
    Potessi soltanto ormeggiare - Stanotte -
    In Te!”




    Kei appoggia sul comodino il libro di poesie che ha preso in prestito dalla biblioteca della scuola. Sono quasi le undici e non riesce a chiudere occhio.
    Le ante della finestra della sua camera sono socchiuse, un vento fresco e leggero, pieno di grilli, si infila fra le tende e lo raggiunge, gli sfiora le guance arrossate, gli accarezza i capelli. Sotto il lenzuolo, il cuore batte veloce, il respiro è profondo, il corpo è sveglio, in allarme.

    Fossi io con te
    Notti Selvagge sarebbero…



    Basta solo l’immagine del suo viso, del suo sorriso sghembo, dei suoi capelli assurdi, più scuri delle piume di un corvo, più lucidi del manto di un gatto… solo questo basta a stranirlo, a rendergli difficile girarsi su un fianco e chiudere gli occhi. Domani c’è scuola, la verifica di matematica, poi gli allenamenti, poi di nuovo lo studio…

    E poi, di nuovo, le parole di Emily Dickinson sul comodino, accanto ai suoi occhiali.

    La nostra ingorda voluttà!
    Inutili - i Venti -
    A un Cuore in porto…



    Ma lui - il porto - non c’è, è lontano da quelle parole conturbanti e dal suo corpo, ancora acerbo, che non trova pace. Lui non può sapere che cosa abbia in testa da quella mattina, l’ostinazione dei suoi pensieri, la delusione delle sue speranze. Non può neanche lontanamente immaginare che cosa abbia significato per Kei incontrarlo, conoscerlo, come il suo sguardo sottile e magnetico abbia bucato il suo orizzonte, sfondato il suo muro.

    Potessi soltanto ormeggiare
    Stanotte - in Te


    Kei spegne la luce, disgustato da se stesso, dal suo desiderio patetico - il primo vero desiderio della sua vita.
    Ha un nome, quel desiderio: Tetsurō Kurō.

    Se lo scrive sul cuore, con un dito.


    ****


    Tetsurō osserva il paesaggio che corre. Kenma dorme sulla sua spalla, Taketora chatta con qualcuno al cellulare, il resto della squadra parlotta e il professor Nekomata ogni tanto ride di gusto, a bassa voce.
    Mentre tutto scorre veloce, lungo i binari dello Shinkansen, fuori splende la luna, immobile nel cielo.
    Anche Tetsurō ride, silenzioso.
    Ride di se stesso e di come ci sia cascato. Ride dei chilometri che già lo separano da quei capelli biondi, da quegli occhi chiari e sfuggenti. Ride per gestire ciò che prova. Non è sufficiente. Vorrebbe tornare indietro e capire meglio che cosa gli stia succedendo. Ma Tokyo si avvicina e Sendai si allontana.
    Solamente la luna resta immobile nel cielo, come un’isola, e sulla luna c’è lui.
    C’è Kei Tsukishima, il centrale silenzioso, sottile, delicato, enigmatico.
    Un’isola luminosa nel mare nero della notte, come recita il suo cognome.
    Tetsurō lo ha osservato attentamente durante le partite infinite di quella lunga giornata di amichevoli, la prima dopo tanti anni fra il Nekoma e il Karasuno, ma è riuscito a scambiare con lui solo poche parole, mentre osservavano entrambi Inuoka e Hinata, sotto rete, che si parlavano l’uno sopra l’altro con un linguaggio comprensibile solo a loro … o forse era l’entusiasmo a rendere quel discorso apparentemente assurdo?

    A differenza di Tetsurō, Kei però non aveva colto la spontaneità e la reciproca ammirazione che era scattata fra i due giocatori avversari, non aveva percepito l’adrenalina che li aveva accesi durante la sfida.

    “Ma come cavolo parlano?” Aveva infatti sibilato, infastidito.

    “Guarda che i liceali parlano così. Forse sei tu quello strambo che dovrebbe adattarsi a loro.”

    Tetsurō era piuttosto divertito da quella intransigenza. Dopo tutto, in quella palestra, ognuno di loro era stracarico di endorfine, parlavano a braccio, a vanvera, ridevano e pensavano già alla prossima amichevole. Perché Kei non registrava nulla di tutto questo?

    “Non mi riesce troppo bene.”

    Una risposta a metà.

    “Ricorda che sei giovane…” aveva risposto Tetsurō, che ora si chiede se quella battuta non sia suonata troppo paternalistica, del resto ha solo due anni più di lui.
    Forse sì. Un po’ si è abituato ad esserlo con Kenma, sin da quando erano bambini… ma Keinon è come Kenma, che il più delle volte fa spallucce e tira dritto: lui è più il tipo che se la prende, lo ha capito dai suoi lineamenti tesi, dal suo essere sempre un passo indietro agli altri. Isolato, annoiato … spaesato, forse, come se quella maglietta numero undici, se quella squadra una volta gloriosa non gli appartenessero davvero.

    Infila gli auricolari.
    Una canzone dei Suede, The Wild Ones.

    “Fra dieci minuti siamo in stazione.” dice qualcuno.

    Fine della corsa.
    Tetsurō lancia un bacio alla luna.


    ________


    Mesi dopo, si rivedono a Tokyo, per il campo di allenamento intensivo.
    È estate, e Kei odia il caldo.
    Odia sentirsi scivolare addosso le ore appiccicose di sudore, accumulate penitenza dopo penitenza, soprattutto lo innervosisce il fatto che Tetsurō sia a un passo da lui, nel campo adiacente al suo. Lo vede saltare, murare, lanciarsi in ricezione su ogni pallone, sinuoso come un gatto. Lo vede sorridere sghembo sia ai suoi compagni di squadra che ai suoi avversari.
    Lo vede a suo agio, che è l’esatto opposto di come si sente lui.
    I loro sguardi si incontrano, di tanto in tanto, ma nulla più.
    È irraggiungibile, perfetto nel suo ruolo di capitano, senpai, fratello maggiore quasi, giocatore completo da ammirare.
    E Kei lo ammira, dietro le sue lenti, mentre si muove svogliato. Se potesse, farebbe altro. Gli leggerebbe quella poesia della Dickinson. No, gliela reciterebbe perché la sa a memoria, l’ha imparata per lui.
    Se solo avesse il coraggio.

    Tetsurō invece maledice le occasioni che non riesce a trovare per interagire con Kei. Sono tutti presi dal gioco, i campi sono sotto un fitto bombardamento di scambi, veloci, servizi al salto, chance ball. Neanche quando le loro squadre si affrontano gli riesce di rompere il ghiaccio. Il suo ghiaccio lunare.

    Ma poi, la sera, accade qualcosa.
    Tetsurō è nella palestra numero 3, con Keiji Akaashi e Kōtaro Bokuto. Stanno allenandosi sotto rete e lo vedono passare fuori, accanto alle porte aperte sull’afa notturna.

    Tetsurō pensa che sia quella l’occasione giusta e che deve coglierla subito, al volo.
    Si scambia uno sguardo eloquente con Kōtaro, che però nasconde ragioni completamente diverse da quelle che crede di afferrare il suo amico del Fukurodani.

    Si lancia.

    “Ehi tu… un secondo… Quattrocchi del Karasuno!”

    Kei si volta verso di loro.
    Tetsurō continua

    “Puoi venire a murare?”

    Kei vorrebbe, ma è stanco di quella giornata, di quella bolgia di giocatori ognuno dei quali sembra avere una vera ragione per sudare, correre e agitarsi, a differenza di lui. Poco prima ha detto anche di no a Yamaguchi, che voleva tirare qualche servizio, figurarsi ora finire a murare quello strano e talentuoso Bokuto… e ovviamente, avere lui intorno.
    Non vuole essere messo alla prova.
    Non vuole sentirsi un fallimento totale.

    Non vuole entrare in quella palestra, sebbene senta forte e chiaro di volerlo con tutto se stesso.

    “E poi, se tu sei un centrale, faresti meglio ad allenarti nel murare, no?”

    La voce di Tetsurō è insidiosa come il suo sorriso sghembo, tagliente come i suoi occhi. Afferra, artiglia quasi quel minuscolo brandello di amor proprio che Kei conserva da qualche parte. Afferra anche la sua voglia di stargli accanto, che cresce esponenziale a ogni secondo che passa.

    Iniziano a giocare ma Kōtaro lo affonda quasi subito. Dopotutto, il suo amico è fra i primi cinque spiker della pallavolo giovanile giapponese, è una gioiosa e rumorosa macchina da guerra.

    Kei arranca, eppure Tetsurō coglie una nota di fastidio nelle sue risposte e nei suoi sguardi. Qualcosa di piccato emerge dal suo Mare della Tranquillità. Buon segno, può cercare un’occasione.

    “Allora proviamo con un muro a due!” Propone con finta nonchalance, quando in realtà prova solo un desiderio irresistibile di averlo accanto a sé.

    Kei lo guarda sfidare l’amico. Non avrebbe mai osato chiederglielo, di murare con lui. È confuso all’idea di giocare accanto a Tetsurō, ma tant’è: sente il suo odore, la sua maglietta che sa di detersivo e sudore, sente la testa girargli, vede le sue lunghe, bellissime mani e sa che può solo fare peggio di quanto ha fatto finora con i suoi muri ridicoli. Sente che se ne pentirà amaramente. Ma resta lì accanto a lui.

    “Conto su di te, Quattrocchi, cerca di bloccare l’attacco!”
    Iniziano e subito Tetsurō riesce a fermare Kōtaro con un muro perfetto.

    Kōtaro allora fa quello che fa di solito: la dice, esattamente come la pensa.

    “Ecco, come immaginavo! Sei bravo a leggere ma il tuo muro è deboluccio…”

    Kei abbassa lo sguardo. In quel momento, Tetsurō sente che c’è in gioco qualcosa di più importante della cotta che si è preso per lui, sente che il biondo mingherlino che tanto lo turba è a un passo dal mollare tutto. Capisce che bisogna defibrillarlo e decide di rischiare. Non va compatito, va scosso.
    Ci va giù pesante:

    “Se continui con queste stupidaggini il piccoletto ti passerà avanti e si prenderà il tuo posto.”

    Ed ecco Kei che riceve da lui quella pallonata senza battere ciglio. Anzi, sorride mentre batte in ritirata.

    “Beh, c’è poco da fare, no? Io e Hinata abbiamo abilità completamente diverse!”

    Arrivano altri del Nekoma e Kei finalmente se ne va, alludendo al fatto che, con tutti quei giocatori a disposizione, di lui non hanno sicuramente più bisogno.

    Tetsurō vorrebbe rimangiarsi parte delle parole che gli ha detto, poter tornare indietro e sceglierne altre, ma è troppo tardi. Kōtaro e Akaashi gli dicono chiaro e tondo che secondo loro il Quattrocchi si è offeso.
    Lo sa anche lui, e capisce che nel caso di Kei non si tratta solo di insicurezza ma di una errata percezione delle sue possibilità.

    È curioso, Tetsurō, vorrebbe scavargli nella testa e nel cuore, capire perché fa così. Capire da dove viene e dove va, stemperare la nebbia che lo circonda. È l’unico che non dice una parola, l’unico di cui non riesce a immaginare nulla. Soprattutto, vorrebbe stringerlo fra le braccia per evitare che fugga via dal suo mondo, dal loro mondo: il campo.

    Va in ansia, Tetsurō, ma non lo lascia trasparire. Forse il biondo deve sbollire.
    Fuori della palestra intanto brilla la luna, isolata nel suo mare nero.


    ________


    Kei dorme male.
    Sono tutti stanchi morti, e lui lo è anche di più ma si rigira senza pace nel suo futon. È come se gli mancasse l’aria, lì al buio.
    Le parole di Tetsurō lo hanno colpito e affondato. Ha perfettamente ragione a considerarlo una nullità prossima a essere scalzata dal piccoletto.
    Non sa se è più l’orgoglio a fargli male o il cuore.
    Ma tanto manca poco alla fine di tutto quello strazio, manca poco e Kei finirà sicuramente sulla panchina del Karasuno.

    In panchina, prima o poi ci finiscono tutti. A cosa serve tutto quello sfoggio di forza, tenacia, entusiasmo? Lui ha ben chiaro cosa è accaduto a suo fratello Akiteru, sa che cosa si prova a illudersi di essere qualcuno e poi ritrovarsi a non essere nessuno.
    Soprattutto, se Tetsurō pensa che sia un perdente, allora deve essere vero… perché in fondo lo pensa anche lui di se stesso.

    La giornata è mediocre, rallentata, e quando Kōtaro gli offre di allenarsi di nuovo con loro, Kei se la dà a gambe.

    Tetsurō lo ha osservato a lungo. Non avendo il coraggio di riprendere il discorso della sera prima, decide di scusarsi con lui per interposta persona, tramite Daichi Sawamura, da capitano a capitano. Si scalda per la prossima amichevole, proprio con il Karasuno.

    Kei non si fa illusioni. L’incontro con il Nekoma è il solito disastro e perdono 25 a 16. La serata procede da schifo, finché Yamaguchi non lo affronta. Lo chiama patetico e ha ragione ma Tadashi, nonostante i suoi trascorsi difficili alle elementari, quando la cattiveria degli altri ragazzini si era scatenata contro la sua debolezza, non può farsi davvero un’idea del peso che il suo cuore continua a sorreggere. Non può capire quanto Kei si senta a disagio in mezzo a quella calca di giocatori, quanto Tetsurō lo faccia, inconsapevolmente, sentire solo.

    Ma poi scatta qualcosa, quando Tadashi parla di orgoglio. Scatta l’analisi, e Kei è un campione di analisi. Kei ama la sistematica, la filogenesi dei comportamenti, vuole andare a fondo, vedere che cos’è che rende tutti così forsennati dietro a una palla. Cosa li riempie di orgoglio e contemporaneamente li svuota della propria rabbia.

    Senza pensarci oltre, arriva di nuovo alla palestra numero 3.

    Tetsurō lo vede arrivare e improvvisamente è più leggero. Vede la sua espressione decisa, sicura, sa che è venuto da loro perché deve imparare ad andare oltre.
    E allora, quale insegnante migliore di Kōtaro? Lascia fare tutto a lui, al suo entusiasmo e alla sua spontaneità. Tetsurō osserva Kei e lo ammira mentre ascolta il suo amico e la tensione finalmente lo abbandona, lo addolcisce. Quegli zigomi delicati, la bocca sottile, la pelle diafana, gli occhi color oro dietro le lenti, tutto della sua fisionomia si rilassa.

    E poi, come per magia, Tetsurō se lo trova accanto. Il brutto scambio che hanno avuto sembra superato.

    “Devi far affluire tutta la tua forza nelle dita. In questo modo eviterai di far schizzare via la palla…”

    È un piacere sottile farsi ascoltare da lui, essere inquadrato dai suoi occhi chiari. Tetsurō vorrebbe spingerlo via e farsi ascoltare ancora ma fuori, da solo con lui. C’è altro che è urgente da dire, c’è altro che vorrebbe fare e che non vuole più solo immaginare.

    La serata però scorre via, il sudore si asciuga, le strade si separano. Domani è di nuovo l’ultimo giorno, e Kei ripartirà…



    Seconda parte - The Wild Ones



    Ehi… giovani corvi!...Vi va di farvi un giro?”
    Più tardi, Yamamoto si affaccia sulla porta dello stanzone nel quale giacciono tutti stremati sui futon. Tutti tranne uno, Tanaka, che si alza in piedi.
    Gli occhi di Kei, confusi e annebbiati dalla stanchezza e dalla miopia, mettono a fuoco con difficoltà… eppure, anche senza lenti, alle spalle di Yamamoto vedono una figura appoggiata con indolenza allo stipite della porta.
    Ma come fa ad avere tutta quella resistenza?
    “Allora? Battete la fiacca? Ma non volevate vedere lo Skytree?”
    “Ehi, city boy, non mi provocare…” esclama Tanaka ma già ride e si infila nuovamente i pantaloni della tuta. Nishinoya lo segue a ruota.
    “E voi, primini…?”
    Kei si agita pur rimanendo impassibile. Potrebbe chiederlo solo a Tadashi, che però già dorme. La strana coppia di bislacchi è ancora in palestra, evidentemente vogliono morirci.
    No, non ha altri amici, lì dentro, con cui uscire. Però vuoleuscire.
    “Ehi, Quattrocchi… sei dei nostri?”
    La voce di Tetsurō è un sussurro, in realtà, e lo sente da lontano. Non l’ha mai sentita così, slegata dalle attività di quel campo di allenamento. Una voce nuova che gli dà i brividi nonostante i trenta gradi.
    Anche Kei si alza e si riveste, tentando di ignorare le facce sorprese di chi ha intorno. Fuori è notte e lui naviga a vista e lì vicino c’è il porto di cui parla quella maledetta poesia.
    Tetsurō è tranquillo. Durante la cena ha riflettuto a lungo: è vero, sono diversi, vivono in due posti diversi, hanno idee diverse sulla pallavolo e un modo diverso di affrontare le frustrazioni che derivano dall’esporsi e dal mettersi in gioco. Quella sera però Kei ha fatto un piccolo passo avanti, forse anche grazie a lui. Anche Tetsurō, allora, fa un passo avanti.
    “Lo Skytree è a un’ora e mezza abbondante da qui. Direi che possiamo accontentarci di un giro a Saitama…” Lo guarda fisso mentre lo dice, mentre già si accontenta di quello che sarà.
    Tanaka non nasconde la propria delusione ma tempo cinque minuti già si è preso sottobraccio Taketora e Yuu e avanza fuori dal cortile della scuola, alla conquista della periferia.
    Dietro di loro, ci sono solo Tetsurō e Kei, più lenti e silenziosi.
    Fuori la luna è immensa e Tetsurō ha quasi paura di guardarla. Improvvisamente è scarico, non ha più adrenalina mentre gli cammina accanto. Sta pensando a come attaccare un discorso qualsiasi ma il silenzio dura poco perché sulla strada ci sono già Kōtaro, Keiji, qualcuno dell’Ubugawa e c’è anche Kenma, appoggiato a un palo della luce con il viso illuminato dallo schermo di un videogioco.
    Non sono più soli.
    I ragazzi si incuneano fra loro, li allontanano. Kei finisce fra le grinfie di Kōtaro, Tetsuro ride mentre Tanaka e Nishinoya prendono in giro la timidezza di Taketora con le ragazze.
    Si fermano in una izakaya poco distante e prendono da mangiare e da bere, rigorosamente analcolici perché l’indomani ci sono altre partite.
    Finiscono sui gradoni di un teatro all’aperto in un parco tutto cemento e piste da pattinaggio e skate.
    Kei si è portato appresso le cuffie. Sa che probabilmente è fuori luogo ed è scortese indossarle ma ha esaurito gli argomenti di conversazione. La pallavolo alla fine gli interessa poco ed è purtroppo l’unico minimo comune multiplo fra di loro – gusti personali, passioni, abitudini… a che serve tirarli fuori e discuterne?
    E poi arriva lui, scende i gradoni e gli si siede accanto.
    Il cuore di Kei si risveglia e ricomincia a correre. Non sa se mollare tutti e correre via anche lui.
    “Ehi Quattrocchi… mica male l’idea di portarsi della musica appresso! Non so tu come faccia a sopportarli, ma i tuoi senpai del secondo anno insieme a Taketora sono assordanti!...”
    “Sono d’accordo con te.”
    “Che musica ascolti?”
    Senza aspettare una risposta, Tetsuro allunga una mano verso il suo Ipod. Kei lo lascia fare e arrossisce al buio perché toccare la sua musica è come toccare lui.
    Il moro scorre le playlist con il dito e sembra apprezzare.
    “Però… bella questa… e anche loro, sono pazzeschi dal vivo. Li ho visti l’anno scorso…”
    “Ah. Quelli come loro da noi non vengono…” risponde Kei con un tono deluso e rassegnato.
    “Questi invece ce li ho anche io, e su vinile, pensa…”
    Parlano di musica, a lungo, e Kei improvvisamente non prova più alcun senso di inadeguatezza. Sente l’irrefrenabile voglia di allungare una mano e infilarla nei suoi capelli neri e con l’altra sfiorargli il viso. Sente, desidera, manda giù saliva perché ha la gola secca, ha sete e gliela provocano le sue labbra così vicine.
    “Senti ma hai un abbonamento a questa piattaforma?”
    “Sì.”
    “Allora… posso?...”
    Kei annuisce e osserva al buio lo schermo luminoso fra le mani di Tetsurō. Lo osserva mentre cerca una canzone e gliela scarica. Non gli dice nulla, però. Chiude l’applicazione e gli sorride.
    I ragazzi si alzano dai gradoni, ormai è piuttosto tardi.
    “Andiamo.” Dice il moro restituendogli l’iPod e dandogli un colpetto sulla spalla.

    ________



    Più tardi, Kei non riesce a dormire nonostante sia sfinito.
    Non osa prendere in mano l’iPod. Se gli deve passare, sa che quella canzone, qualunque essa sia, può solo infierire sulla sua situazione.
    È innamorato, non è solo attratto.
    Quel poco che hanno vissuto insieme sul campo, le sue parole di sfida e poi quelle di incoraggiamento… ha fatto più Tetsurō per lui che settimane di allenamento. E poi le parole scambiate al parco, gli sguardi pieni di interesse, le gambe che si sfioravano.
    Vorrebbe cambiare città, liceo, squadra, vita.
    La canzone ascolterà domani, sulla via del ritorno.

    No, non ce la fa, la mette subito. The Wild Ones, dei Suede

    <div style="position:relative;height:0;padding-bottom:56.25%">



    “C'è una canzone che suona alla radio,
    alta nel cielo tra le onde dello show del mattino
    E mentre il disco suona, un'ancora di salvezza scivola via
    E mentre apro le serrande della mia mente, confido che tu resterai qui

    Oh, e se resti, caccerò via lontano i campi sferzati dalla pioggia
    Splenderemo come il mattino e peccheremo sotto la luce del sole
    Oh se resti
    Oggi saremo i selvaggi che corrono insieme ai cani

    C'è una canzone che risuona da dietro la parete
    Tutto quello che vediamo e a cui crediamo è il DJ, ed i debiti si dissolvono
    Ed è un peccato che l'aereo parta in questa giornata di sole
    Perché il mio tatuaggio sanguinerà su di te ed il nome sbiadirà

    Oh, e se resti, caccerò via lontano i campi sferzati dalla pioggia
    Splenderemo come il mattino e peccheremo sotto la luce del sole
    Oh se resti
    Oggi saremo i selvaggi che corrono insieme ai cani”



    Si è accorto di essere rimasto immobile, senza fiato.
    Una canzone che parla di un’ancora, che scivola via tra le onde.
    Lui che cerca un porto.
    Lui che non parte, che rimane.
    Potessi soltanto ormeggiare - Stanotte! - in Te

    Kei non vede più nulla, nel buio è tutto smisurato, profondo, meravigliosamente confuso.

    Però, se fosse tutto un gioco?

    È crudele il pensiero che Tetsurō possa volersi prendere gioco di lui - come potrebbe solo pensare di piacergli? Sono come il giorno e la notte, lui è popolare e pieno di amici e interessi mentre Kei presta il suo tempo a uno sport che non apprezza come dovrebbe. Ma è molto più crudele l’idea che quella canzone non significhi in realtà nulla, che sia una bella canzone, niente di più, fra le mille che gli piacciono.
    Si alza e si riveste, di dormire non se ne parla.

    Tetsurō è fuori, sul prato. Sdraiato a prendere le stelle, come amava fare da piccolo sul terrazzino di casa sua.
    Quella canzone è stata un colpo di testa ben camuffato, a cui fino all’ultimo momento ha tentato di resistere. Non sa se Kei l’ha ascoltata, se ha capito qualcosa. Non crede che possa accadere così, dal nulla. Il mondo è pieno di schermi, maschere, incute timore se si è giovani. Anche Tetsuro è giovane, inesperto, intimorito da ciò che prova, ma lo prova e gli piace disperatamente.

    E poi sente dei passi avvicinarsi, alle sue spalle.
    Si tira su, si volta.
    Kei, con la sua maglietta bianca, brilla quasi sotto la luna. Sembra ancora più fragile di quanto non appaia alla luce del sole. È l’isola luminosa che lo ha incantato.

    Tetsurō invece è ancora più scuro nella sua t-shirt nera, si notano solo i pantaloncini rossi. Kei sente una corrente che lo spinge verso di lui. È una barca pronta all’abbrivio. Il porto nella notte. La notte selvaggia.

    Non c’è nessuno a parte loro due, l’edificio della scuola è una fila di occhi spenti e addormentati.
    Si guardano, si avvicinano. Non ci sono abbastanza secondi a separarli, non fanno in tempo a cercare le parole per riempirli.
    Kei si lascia prendere, abbandona il suo viso nelle mani di Tetsurō, la bocca sulla sua. Non ha mai dato un bacio a nessuno eppure con lui sa perfettamente come si fa, sa che può e deve sentire il suo sapore, incatenare il respiro al suo. Sa che le braccia possono allungarsi, le mani afferrare e sfiorare, lo sa mentre Tetsurō fa la stessa cosa. Sa che può bruciare tutto, che le notti possono essere selvagge anche per lui.
    Dietro un albero, può lasciarsi spingere giù, sentire l’erba umida fra i capelli e i grilli accesi ovunque. Può fare spazio e cercare spazio, arrivare fin dove si può arrivare a poche ore dalla sua partenza. Può cercare e trovare i suoi occhi al buio, dirgli che gli sembra di impazzire, che non sa come fare.
    Sentire la sua pelle e offrirgli la propria.
    Chiudere gli occhi sotto di lui, sentire il cuore che deborda, respirare forte mentre lo tocca e si lascia toccare.
    Annuire stravolto quando lui gli dice in affanno che troveranno il momento giusto per fare tutto, per farlo bene, e che quello è solo l’inizio.
    E poi, nel suo orecchio, riversare le parole di quella poesia mentre lui lo stringe forte.

    “Quando è iniziata… per te ?” Chiede dopo Kei, curioso. “Dopo la prima amichevole. Poi ti ho rivisto, durante il ritiro breve e ho provato a riordinare i pensieri ma ho capito che questa cosa che avevo per te poteva solo peggiorare.” Tetsurō sorride al buio, sfiorandogli i capelli.
    “Anche per me è iniziata in quel momento...”
    “E poi, quando in questi giorni ho temuto che volessi mollare la pallavolo… ecco, credo che questa cosa abbia accelerato tutto.”
    Kei sospira, ha poco da dire, in realtà, sulla pallavolo. L’ha messa fra parentesi.
    “A me è andata peggio che a te… io non sono abituato a… sperare. E a crederci.”
    Tetsurō sorride e lo bacia di nuovo, a lungo, con determinazione.
    “Ci credi, ora?… Kei, per quanto riguarda la pallavolo…non sprecare tutto.”
    Kei sorride al buio. Un sorriso amaro, in verità.
    “Datti tempo, questo sì… ma non sprecarlo.”
    “Ci proverò…”

    È quasi l’alba quando decidono di rientrare.
    O almeno ci provano, si tirano su dal prato per finire di nuovo giù e sono di nuovo mani e brividi sotto le magliette.

    Poi Tetsurō, il più grande, torna a essere abbastanza lucido per entrambi. Si scrollano di dosso i fili d’erba e prendendosi per mano, rientrano alla base.

    Il giorno dopo, tanto per cambiare, Kei ha lo stomaco chiuso. È esterrefatto, immerso nel suo mondo, apparentemente impermeabile.
    Glielo ha detto, a Tetsurō, che non avrebbe fatto trapelare nulla, si sarebbe comportato come al solito specie con quei fastidiosi, curiosi e inopportuni compagni di squadra.
    Si sono però scambiati i cellulari e fra una partita e l’altra si mandano dei messaggi che leggono avidamente. Sono parole che scaldano e fanno arrossire.
    Tetsurō è estasiato da ciò che legge, Kei sceglie le parole con cura per trasmettergli ciò che prova per lui, è delicato come una carezza nonostante quelle mani che, se ben aperte, potrebbero murare chiunque.
    Le mani bianche che si è sentito addosso anche quando si è infilato nel futon per dormire un paio d’ore.
    Tetsurō, invece, non può fare a meno di essere più diretto nell’esprimere ciò che desidera, e come, e si diverte a vederlo arrossire a distanza.

    C’è solo un momento, durante la mattinata, dopo l’ultima partita contro il Fukurodani, in cui si materializzano un corridoio vuoto e uno stanzino, in un angolo fuori mano del pianterreno.
    Lì dentro è diverso dalla sera prima - non c’è erba umida ma spigoli e pareti e c’è meno tempo, ma il poco che c’è è tutto loro.
    Sono giovani e non hanno esperienza di come si possa dominare il desiderio, che in loro è già intrecciato all’ inevitabile distacco, è già puro come la nostalgia che da quella sera proveranno l’uno per l’altro.

    Dopo un bacio infinito, Kei riesce a staccarsi dalle labbra di Tetsurō ma solo per prenderlo in giro.

    “La canzone dice peccheremo sotto la luce del sole, non in uno stanzino buio accanto alla mensa…”
    “Shhh… tanto oggi c’è la grigliata e si mangia fuori…”
    “Che cosa vuoi fare…?” Chiede Kei tagliandosi su quegli occhi sottili come lame.
    “Quello che posso per ricordare il più possibile. Per sognarti meglio. Ricordi? La nostra ingorda voluttà!
    Gli toglie la maglietta.
    Kei sente un bacio scivolargli giù lungo il collo, le labbra insistono e bruciano, nel punto morbido fra lo sterno e la clavicola.

    La sera, a casa, mentre si spoglia, vede quel bacio tatuato, il bacio della canzone. Non scolorirà.

    Sorride. Sotto sotto, crede che la pallavolo non sia poi tanto male.
    È il caso di darle un’altra possibilità.


    (FINE)

    Edited by Bathsheba Everdene - 28/4/2024, 09:06
  6. .
    Eccomi LaraTania !
    Ho pensato di regalare a Kei soprattutto qualcosa da stringere fra le dita che non scivoli via come sabbia: nel manga di lui sappiamo che giocherà ancora a pallavolo e che studia all’università ma non sapremo mai che cosa combinerà e se troverà davvero il suo posto nel mondo. È un personaggio molto critico e cervellotico, ma anche molto fragile e delicato e almeno qui Tetsurō si prenderà cura di lui.

    Lo spin off è ancora in fase di creazione ma manca poco, avrà al centro altri due personaggi.

    Nel mentre, Il gatto e la luna sono sempre nel mio cuore e posterò presto un racconto in due parti ❤️
    A presto😘😘
  7. .
    Eccomi!
    Una storia davvero fresca e piena di ritmo, trovo che tu abbia una scrittura cinematografica 🤩. I dialoghi serrati lasciano trasparire il dato fondamentale che li rende perfetti l’uno per l’altra prima ancora di andare a “scomodare” gli ormoni, e cioè la facilità e la naturalezza con cui parlano.
    Ho trovato geniale il finale con lo svelamento dell’arcano 😀, nello scrivere la storia lei c’è andata molto vicina con i “pensati” di lui… il “resto” invece era giustamente tutto da vivere ❤️‍🔥!
    😘

    Edit: ma alla fine, fra i due qual è la differenza d’età 🤔

    Edited by Bathsheba Everdene - 27/4/2024, 19:25
  8. .
    CITAZIONE (Galadriel1978 @ 24/4/2024, 21:01) 
    Bellissimo finale, finalmente dopo 10 anni possono dirsi quello che provano. E pure il Bro forse forse si sveglia XD
    Bene bene, chissà che non ti scappi qualche altra mini FF per farci curiosare nel loro vissuto :yea:

    Sì, il Bro è il prossimo obiettivo 😝! mi frulla già nella mente, tra l’altro il personaggio di Akaashi, di cui parla Tetsurō, è un altro elemento meraviglioso di questa storia.
    Per come avevo impostato questo racconto, la prima parte doveva essere tutta dal punto di vista di Tetsurō, la seconda di Kei e la terza di entrambi perché era il momento del chiarimento e dell’andare oltre, era per questo motivo che non potevo aggiungere altro, per quanto fossi tentata di farlo.
    Però c’è un’altra cosetta che ho scritto di loro, su quando si incontrano la prima volta, e che potrei caricare qui, devo solo sistemare l’html.
    Grazie socia 😘😘!
  9. .
    😘

    Seconda Parte



    Kei si ritrovò improvvisamente catapultato nel passato.

    Poco distante da lui, sulla strada che costeggiava il Museo della Città di Sendai, Kurō Tetsurō scendeva da un taxi, vestito con estrema cura.
    Lo vedeva osservare con un certo interesse l’enorme e moderno edificio di cemento e vetro che ospitava l’evento di quella sera. Evidentemente, stava venendo proprio lì.

    Come mai non aveva notato il suo nominativo tra gli invitati? Non aveva stilato lui le liste… forse quelle che gli avevano consegnato i suoi collaboratori erano incomplete?

    Mentre lo vedeva avvicinarsi alla scalinata che conduceva all’ingresso, Kei si aggrappò con la mente al ricordo di un’estate di più di dieci anni prima, al momento in cui, nonostante lo avesse già conosciuto in un’altra occasione, aveva guardato Kurō Tetsurō per la prima volta con attenzione, curiosità, timore e assoluta diffidenza.
    E attrazione.

    Tutto era partito da lì, dall’artiglio che il gatto era riuscito a conficcargli nel cuore. Il sospetto che nutriva nei confronti delle proprie inclinazioni sessuali si era trasformato in certezza al suo cospetto, e l’agnizione era stata potente e rabbiosa, benché nulla di tutto questo fosse trapelato durante quella infinita Golden Week.

    Nella palestra numero 3 del Liceo Shinzen si era così trovato a dover affrontare le sue frustrazioni per la pallavolo e quelle legate al suo corpo che si risvegliava da una specie di letargo autoindotto, e tutto a causa di un bel ragazzo come probabilmente ce n’erano tanti in giro… ma lui era lui!

    Kei allora aveva quasi sedici anni, era un primino taciturno, indietro rispetto al resto della squadra, demoralizzato, fuori tempo, in guerra con se stesso perché non voleva annullarsi, come aveva fatto suo fratello Akiteru, davanti agli impossibili sogni di gloria di un club di pallavolo.

    Kurō invece appariva sicuro, dominante. Largo di spalle, testa alta, occhi taglienti come lame, voce anche più tagliente.
    Lo chiamava, lo trascinava sotto rete, lo ammoniva, gli diceva cose che non lo offendevano benché lo colpissero per la loro franchezza.

    Era stato anche grazie a lui se non aveva gettato spugna e ginocchiere e aveva proseguito. Nel tempo, aveva dovuto ammettere con se stesso che se all’epoca aveva deciso di rimanere in campo a giocare, era stato soprattutto perché in questo modo era sicuro di rivederlo.

    Gli anni erano passati così, con Kurō avversario di giorno e trasformato, di notte, in una specie di sogno proibito, blindato, ricorrente e bagnato.

    Solo Yamaguchi aveva intuito che qualcosa lo agitava e lo spazientiva, ma Tadashi lo conosceva ormai da una vita ed era stato anche per quella ragione che proprio con lui Kei aveva ceduto.

    Si erano scambiati il primo bacio ai nazionali, nello spogliatoio, e poi c’era stata una sola prima volta, consumata con impazienza in camera sua un giorno che i suoi erano partiti e Akiteru era in trasferta con la sua patetica squadretta universitaria.

    Aveva passato quel pomeriggio a farsi fare cose che avrebbe voluto gli facesse qualcun altro.
    Un’estasi violenta e disperata, la sua, la prima estasi causata del contatto ravvicinato con un altro corpo.
    La verità nuda e cruda raccontata però alla persona sbagliata.

    Tadashi, che gli voleva bene, aveva poi incassato il suo rifiuto ad avere una storia con lui. Tadashi, che ora aveva un compagno ed era felice.

    E poi, una sera di pochi anni prima, aveva preso in pieno un colpo che non si sarebbe mai immaginato di incassare.

    I Jackals avevano vinto contro gli Adlers e Kei era fuori del palazzetto dello sport ad aspettare Hitoka, che era andata insieme a Tadashi a riprendere la sua auto nel parcheggio.
    Aveva visto uscire Kurō insieme a Bokuto, lui in abbigliamento formale, una targhetta visibile sulla giacca, e l’altro con l’uniforme della squadra.
    Non li vedeva da tempo e mentre Kurō appariva solo un po’ più alto e sempre meravigliosamente piazzato, Bokuto era diventato ancora più imponente.

    Non aveva fatto in tempo a gestire la sorpresa che aveva visto Bokuto allungare le mani sul viso di Kurō per poi baciarlo con avidità. Gli aveva detto qualcosa all’orecchio, Kurō aveva annuito con un sorriso spudoratamente complice ed erano spariti dentro un taxi.

    Una settimana dopo, il professore che stava seguendo la sua tesi di laurea in Paleontologia e per il quale già stava lavorando al progetto sul Wakinosaurus Satoi, lo aveva convocato nel suo studio.

    La facoltà aveva bisogno di persone come lui, metodiche nello studio e dal grande potenziale. Si era liberato un posto come assistente e con il suo curriculum, gli esami in regola e i suoi risultati, se avesse accettato di intraprendere la strada accademica avrebbe potuto entrare a far parte del board scientifico che supervisionava il progetto sul dinosauro, collegato al Museo di Sendai.

    Questo però avrebbe richiesto da parte sua una concentrazione e una dedizione totali alle attività dell’Ateneo.

    Kei, che era bravo in matematica, aveva capito subito che quattro ore di allenamento quattro volte a settimana, più le partite con i Sendai Frogs, non sarebbero state gestibili da parte sua con quel nuovo carico di lavoro e aveva preso la sua decisione, tanto non sarebbe mai passato nella Prima Divisione, giocava per inerzia ormai mentre all’università poteva finalmente trovare la sua strada.

    Soprattutto, allontanarsi definitivamente dalla pallavolo lo avrebbe aiutato ad allontanarsi da Kurō, il fantasma sempre in agguato, il fantasma che baciava un uomo e che per quel preciso motivo si riaffacciava, stavolta però fatto di carne, sangue e ossa.
    Fatto di parti nascoste a cui ora pensava in maniera ancora più ossessiva. Esattamente come in quel preciso istante sui gradini del Museo. E quando gli occhi di Kurō, che si erano lasciati distrarre dalla magnificente modernità esteriore del Museo intercettarono i suoi, Kei comprese che non era affatto finita e il solito automatismo, il gesto che da solo teneva in equilibrio tutti i suoi nervi scoperti, si manifestò con lentezza rassicurante: la sua mano si sollevò e le sue dita sistemarono sul naso la montatura degli occhiali.

    Era nervoso ma gli sarebbe passata.

    Gli rivolse uno sguardo rigido, e quasi neanche rispose al suo cenno di saluto. Quello non era un palazzetto dello sport o una palestra, era finalmente il suo territorio, e lui non era più un primino frustrato o un giocatore a metà: era Kei Tsukishima, laureato in Paleontologia, relatore di un progetto prestigioso, pronto ad accompagnare in sala il sindaco e il ministro.

    Nessuno poteva soffiargli il posto, non c’era un Hinata più bravo di lui a farsi strada, un muro più alto.
    Stavolta era lui, il muro.

    Il Preside della facoltà gli fece cenno di accompagnare gli ospiti d’onore nell’atrio, il primo gruppo era pronto.

    Si voltò nuovamente verso la scalinata. Kurō era al telefono. Gli lanciò un’ultima occhiataccia e rientrò, pregando che fosse abbastanza chiara la sua non volontà di interazione.

    Continuava ad avere il suo problema con gli occhiali. Sentiva piccole gocce di sudore che gli imperlavano il naso. Li aggiustava e riaggiustava ma continuavano a scivolare e finalmente, quando ebbe affidato alla guida il primo gruppo, si avvicinò al guardaroba alla ricerca di un fazzoletto.

    Il secondo gruppo si stava lentamente formando. Se Kurō si fosse aggregato a quello, per una mezz’oretta, la durata media della visita, non avrebbe rischiato nulla, e alla caffetteria del roof ci sarebbe stata troppa gente per fare conversazione libera.

    Respirò a fondo e poi sentì la sua voce alle spalle.

    “Tsukishima…”

    Si voltò e anche senza gli occhiali, che stava pulendo con il fazzoletto, riuscì a vedere chiaramente quegli occhi assassini, che bucavano anche la nebbia che lo circondava.

    Istintivamente tentò di sistemarsi le lenti sul naso anche se ce le aveva in mano.

    Con estremo imbarazzo, le reindossò velocemente, sperando che lui non avesse colto quell'atto mancato che raccontava tutta la sua agitazione.

    Il giovane uomo che aveva davanti non era cambiato molto. Era più affascinante, con quel completo da manager, il distintivo della JVA, la peluria leggera che gli accarezzava le guance. I soliti capelli corvini, assurdi, i soliti occhi magnetici che vedevano anche al buio.

    Riuscì a formulare un’unica domanda sensata, banale, utile.
    “Kurō. Come mai sei qui?”
    “Mi avete invitato voi, credo.”
    “Non io. E non immaginavo…”
    “Che potesse interessarmi la cultura?… Mi sottovaluti, Quattrocchi.”
    “Scusami. Non volevo insinuare nulla, solo che non mi aspettavo di vederti qui a Sendai e per giunta qui al Museo. Mi dai l’aria di essere una persona sempre molto occupata.”
    “È vero, sono venuto a Sendai anche per alcune attività dell’Associazione. E poi c’è anche Bokuto, qui in città.”

    Kei smise di colpo di sudare. La nota fredda della delusione lo percorse tutto, dalla testa ai piedi. Era venuto per lui, quindi

    “Ah. Capisco.”
    Una voce impostata e gentile si infilò allora nella loro conversazione.

    “Professor Tsukishima, mi scusi... il Direttore la sta cercando e la attende di sopra in caffetteria.”
    La giovane addetta del Museo si inchinò e tornò ad accogliere gli invitati.

    Kurō si lasciò sfuggire un fischio basso.
    “Però… professore! Mi sono perso un po’ di puntate. Ora sei a buon titolo ancora più Quattrocchi di prima.”

    Lo disse senza la sua solita, fastidiosa ironia. Era cordiale, tranquillo, mentre Kei sentiva il cuore in una morsa gelida, che batteva veloce e con un rumore di vetri infranti.

    Era il momento di andare.

    “Buona visita, Kurō."
    “Grazie. Ehi ma…”


    Non gli lasciò finire la frase e salì le scale che dall’atrio e dal guardaroba conducevano al roof.


    Era pur sempre una serata di lavoro, una cosa seria, più seria della pallavolo.
    Più seria di ciò che continuava a provare con ostinazione per quel giovane uomo atletico e a suo agio in una tuta da ginnastica come in un completo, che mostrava al mondo tutta la sua sicurezza senza ostentarla.

    Non ascoltò assolutamente nulla di quanto gli venne detto durante l’aperitivo al roof. Incassò i complimenti senza battere ciglio, infilandoli da qualche parte a sostegno di ciò che rimaneva del suo amor proprio, fatto a brandelli da quel maledetto gatto nero.

    Eppure si ostinava a guardare che ore fossero, a sobbalzare in ansia tutte le volte che sentiva voci nuove entrare in sala.

    Il suo gruppo si presentò, alla fine del giro, ma lui non c’era.

    Se ne era andato! Ma era quello che voleva, no?
    No, non lo voleva.
    Sì che lo voleva, altrimenti non lo avrebbe trattato con quella freddezza
    Ma no, era disperato all’idea che fosse svanito nel nulla...

    Imbastì una serie di scuse convincenti e scese a perlustrare il territorio.

    L’ultimo gruppo stava lasciando il padiglione.

    Navigò controcorrente verso la sala che intanto si era svuotata.

    Kurō era lì, seduto al centro della sala, su una panca, al cospetto del dinosauro.
    Lo fissava attentamente e solo quando fu abbastanza vicino si accorse di lui.
    “Però. È impressionante.”

    Si spostò lentamente per fargli spazio. Kei, in silenzio, si sedette accanto a lui, percependo chiaramente il calore del suo corpo.

    “Ci sono voluti quattro anni per ricostruirlo a partire dai fossili che abbiamo ritrovato.”
    “E tu sei stato bravo, vero?”
    “Sì.”

    Era la verità.

    “Sai che cosa mi sembra, visto da qui? Un giocatore che sta aspettando la palla! Osserva bene: le zampe posteriori piegate, una in avanti, le zampe anteriori tese verso l’alto. Un Mikasa o un meteorite?”

    Kei sorrise. La tensione stava inspiegabilmente scemando.

    "Vediamo... se dall'altra parte della rete ci fossero Ushijima, o Azumane... forse la seconda delle due!" Esclamò Kurō ridendo.

    “Non riesci proprio a pensare ad altro che non sia la pallavolo?” Replicò Kei con il tono ironico che riservava a persone come Hinata e Kageyama, alle persone assurde, insomma.

    Si aspettava una risposta a sua volta ironica ma così non fu.

    Kurō si era girato verso di lui, ignorando ora il bestione fossile.
    “A dire il vero, in questo momento sto pensando ad altro…”

    Gli occhi del gatto trafficavano con i suoi e Kei lo avvertiva chiaramente ma non riusciva a capire né a chiedergli perché lo stesse fissando così.

    “Professor Tsukishima, il sindaco vorrebbe salutarla.”
    La solita solerte giovane addetta del Museo interruppe il flusso dei suoi pensieri.

    Kei si alzò di scatto. Meglio tagliare corto.

    “Devo andare. Spero che la visita sia stata di tuo interesse.”

    Kei…”

    Si voltò lentamente verso la voce che lo aveva chiamato per la prima volta con il suo nome.

    “S셔
    “Hai un po’ di tempo, più tardi? Per bere qualcosa.”
    “Con me? Non hai nulla di meglio da fare?”
    “È proprio la cosa migliore che io possa fare, invece.”

    Kei stemperò la confusione nell’unica maniera che gli era congeniale. Pianificando.
    A quel punto, non gli importava di essere un rimpiazzo per passare un po’ di tempo se Bokuto non era disponibile.

    “Fra tre quarti d’ora sono libero. Il Museo chiude ma la caffetteria resta aperta. Mi trovi lì.”

    (Continua…)
  10. .
    CITAZIONE (Galadriel1978 @ 22/4/2024, 12:19) 
    Mi piace questo incipit! Adoro come scrivi, io non conosco mezza tavola del manga da cui trai ispirazione per i personaggi eppure leggo e mi sembra di conoscerli da sempre.

    Credimi, questa tua riflessione mi rende felicissima! Il fatto di coinvolgere la tua attenzione e di farti avere delle aspettative, anche se la base della storia non è nota, mi gratifica tanto!
    Soprattutto, se la tensione resta alta.... yuppiiii :uuu: !
    A presto per il seguito :siiii:
  11. .
    CITAZIONE (Galadriel1978 @ 22/4/2024, 12:03) 
    ci credi che mi ero persa questo epilogo? com'è possibile :sciok:

    Socia! Eri sicuramente molto presa da un certo tuo epilogo 🥰!
    È solo grazie alla vostra partecipazione alla lettura che è scattato questo finale inizialmente non previsto, ed è stato anche un modo per salutare i personaggi.
    Grazie come sempre 😘😘, di esperimento ce n’è anche un altro 😉
  12. .
    Eccomi… la “lettrice latente” è tornata!
    Posso commentare solo il capitolo 6 perché stasera sono riuscita a recuperare solo quello.
    Dunque: un commento su Andrew, che ormai è andato oltre e che, nonostante la gelosia, non può tornare alle sue solite modalità, con Owen “compagno di merende”. Vuoi o non vuoi, Lexie lo ha cambiato e questo accade quando oltre ai feromoni lavorano anche i neuroni! Che però in Lexie la fanno (ancora) da padroni, e quel “lei” che non riesce a diventare “tu” è l’ultima vera difesa che ha per non cedere - io però la capisco: lei è una persona seria e rispettosa che purtroppo ne ha subite tante da un uomo infantile e senza scrupoli, ci sta tutta che continui ad andarci piano, non può leggere nella testa di Andrew. Secondo me, questo sarà un punto a suo favore e lo stesso Andrew apprezzerà!
  13. .
    “Tetsurō… perché sei così dannatamente etero?” X)
    Se lo chiedeva Tooru, protagonista di una FF dal titolo “Tre”, pubblicata da me poco tempo fa in questa sezione.
    Come avrete capito, se avete avuto modo di leggerla e avete amato Tetsurō, ritorno su Haikyuu, manga meraviglioso (anime altrettanto) e stavolta lo trascino in una storia totalmente diversa.
    Va fatta una premessa, fondamentale per chi non conosce il fandom che ruota attorno a questo manga: il personaggio di Tetsurō è gettonatissimo ed è solitamente “shippato” con quello di Bokuto, ma c’è anche chi lo vede insieme a Tsukishima, altro personaggio meraviglioso, fra i più complessi. Questo perché Tetsurō, capitano del Nekoma, è un "gatto" e Tsukki, come recita il suo nome, è la “luna”. Io, come al solito, ci vado leggera e scrivo soprattutto delle sensazioni che immagino per loro.

    Come avrete capito, è un intreccio shonen-ai <3
    Fatta la premessa, la storia è un missing moment totalmente inventato, a parte qualche dettaglio di partenza che chiarirò a fine capitolo.
    Buona lettura :]



    Titolo:Di gatti, dinosauri e chiari di luna

    Autore: Bathsheba Everdene

    Protagonisti: Tetsurō Kurō e Kei Tsukishima

    Breve Descrizione: Tetsurō e Kei si incontrano dieci anni dopo

    Numero di Capitoli: 3 parti

    Contiene Spoiler: Solo per chi non ha mai letto il manga potrebbe essercene qualcuno

    Contenuti Erotici: Appena accennati




    Prima Parte





    Blue moon, you saw me standing alone
    Without a dream in my heart
    Without a love of my own

    Blue moon, you knew just what I was there for
    You heard me saying a prayer for
    Someone I really could care for

    And then there suddenly appeared before me
    The only one my arms will ever hold
    I heard somebody whisper "Please adore me"
    And when I looked, the moon had turned to gold!

    Blue moon!
    Now I'm no longer alone
    Without a dream in my heart
    Without a love of my own







    A ventotto anni, Kurō Tetsurō continuava a essere profondamente gatto.

    La sua indole felina traspariva da ogni suo gesto e atteggiamento.

    Il suo ruolo di promoter per la Japanese Volleyball Association lo faceva girare in lungo e in largo per tutto il Paese e quando si trovava seduto in tribuna ad osservare un giocatore potenzialmente interessante, lo faceva nell’immobilità più assoluta. Le sue pupille si contraevano e si assottigliavano. Occasionalmente, con le dita si sfiorava la guancia, come a sfiorarsi le vibrisse.

    Questo capitava in special modo se all’osservazione prettamente esteriore si sovrapponevano considerazioni sulla personalità che il soggetto osservato esprimeva sul campo, sia durante le azioni sia nei momenti in cui il gioco era fermo, dopo un punto guadagnato o perduto, oppure durante un time out.

    E poi, a completare il tutto, c’erano la sua discrezione e la sua tenacia nel seguire il percorso di un atleta partita dopo partita e nel valutare quale tipo di gioco gli fosse più congeniale, che tipo di schemi. Il suo obiettivo primario era stabilire di che tipo di animale si trattasse: selvatico e individualista come un’aquila, di difficile gestione in un gioco che si fondava sullo spirito di squadra? Oppure un gregario, che si lasciava trascinare facendo il suo lavoro ma non di più, come l’ultimo di una nidiata di corvi? Oppure ancora il perfetto leader che plasmava il gruppo e motivava i suoi compagni, il fulcro del suo team, il capo branco, il primo tra i gatti della discarica?

    Secondo Tetsurō, ogni atleta, se messo nelle condizioni giuste per farlo, era in grado esprimere il proprio potenziale - quale che fosse - che mescolato a quello dei compagni poteva creare la sintesi giusta per la propria squadra. Il Nekoma, ai tempi del liceo, era stato per lui un ottimo esempio di squadra nella quale tutti potevano dare qualcosa al gruppo e ora, con le sue esperienze da giocatore e quelle successive legate al suo ruolo nella JVA, Tetsurō aveva affinato le sue capacità e si era trasformato in un vero cacciatore di talenti, quasi una figura manageriale, fortunato nel suo lavoro perché amava ancora la pallavolo con la stessa intensità di quando era piccolo.

    E continuava ad amarla nonostante ne conoscesse bene anche gli aspetti più stressanti: c’era infatti sempre una sottile barriera a separare il successo dall'insoddisfazione, l’armonia dai conflitti. Sottile come una rete. Alla fine, si giocava sempre su un filo teso, che poteva spezzarsi da un momento all’altro.

    Che cosa si era spezzato, per esempio, in Kei Tsukishima?

    Tetsurō se lo chiedeva giusto quella sera, mentre osservava il Quattrocchi vestito in giacca e cravatta in piedi davanti all’ingresso del Museo della città di Sendai.

    Il Museo aveva aperto le porte per un evento serale privato, organizzato dal municipio e dal ministero della cultura.

    Che cosa ci faceva lì l’enigmatico e biondo ex centrale del Karasuno, e ormai anche ex centrale dei Sendai Frogs, così elegante e così bello in un luogo totalmente diverso da una palestra o un palazzetto dello sport?

    A giudicare dallo sguardo tagliente che il soggetto in questione gli stava rivolgendo in quel preciso istante, accorgendosi della sua presenza, la stessa domanda se la stava ponendo anche lui nei suoi confronti, perché sicuramente Kurō Tetsurō non era tipo da museo.

    Eh no.

    Tetsurō gli rivolse un sorrisetto incerto e con un gesto gli fece capire che lo avrebbe raggiunto per salutarlo. Erano lì entrambi, perché non scambiare due chiacchiere?

    Il Quattrocchi allora si aggiustò gli occhiali sul naso.

    Quando lo faceva, era nervoso. Gli voltò le spalle senza ricambiare neppure con un minimo cenno di saluto.

    E anche Tetsurō, di colpo, si innervosì.

    Perché era sempre così impermeabile? Sempre barricato dietro qualche cosa, come i suoi begli occhi chiari dietro le lenti.

    L’ultima volta che lo aveva visto era stato pochi minuti prima della partita fra gli Adlers e i Jackals. Quella sera gli era apparso anche più bello di come lo vedeva ora in giacca e cravatta: indossava un paio di jeans aderenti e una giacca chiara che gli disegnava con eleganza le spalle e la schiena. Si era fermato al metro e novanta e se lo portava benissimo.

    Aveva pensato di raggiungerlo sugli spalti ma poi aveva avuto da gestire alcune persone che erano state invitate dall’Associazione e comunque lui era insieme a Yacchan e Yamaguchi - che equivaleva più o meno alla sua ombra.

    C’era stato però un momento, al bar del palazzetto dopo la partita, nel quale si erano trovati a un passo l’uno dall’altro. Tsukishima era solo non si era accorto di lui e Tetsurō, che pure gli si stava avvicinando, aveva poi fatto marcia indietro: improvvisamente gli si era impastata la lingua, gli era aumentato il battito, gli era tornato quel turbamento che solo la certezza che quello che aveva di fronte fosse il suo vero primo amore poteva provocargli ancora a distanza di tanto tempo.

    Un primo amore mai dichiarato, scomodo, difficile perché difficile era Tsukishima, giudicante, respingente, chiuso.

    Era stato a un passo dal confessarglielo anni prima, ai Nazionali, il giorno in cui il Karasuno dopo aver vinto contro il Nekoma aveva perso contro il Kamomedai, ma quando si era infilato negli spogliatoi per incontrarlo e provare a esprimere a parole semplici ciò che di complicato provava per lui, lo aveva visto appoggiato al muro con Yamaguchi proteso su di lui che gli sfiorava le labbra con le proprie.

    Aveva lasciato il campo. Non era scappato, questo no, ma se ne era andato ferito a morte. Aveva perso di nuovo.

    Ritornò allora con la mente alla sera della partita vinta dai Jackals. Tsukishima si era preso un caffè e se ne era andato via, la sua figura alta fasciata nella giacca chiara come i suoi capelli, il passo lento.

    Quella stessa sera Tetsurō era invece finito a letto con Bokuto, una cosa senza complicazioni e strascichi, una nottata di sesso intensa e liberatoria per entrambi che li aveva visti salutarsi il giorno dopo come due amici, forse un po’ più intimi della media.

    La sua prima volta l’aveva vissuta proprio con lui, al liceo, ed era stata allegra, scalmanata, etilica. Avevano fatto un disastro, avevano riso, lo avevano rifatto meglio, dopo.

    Era stato bello ma tutto l’opposto di quello che aveva invece immaginato per lui e Tsukishima: qualcosa di silenzioso e intenso, da fare a occhi aperti, respirandosi a fondo, qualcosa di serio, qualcosa di bello sì ma per l’eternità.

    Qualcosa di impossibile.

    Intanto, davanti alla scalinata del museo, era un continuo via vai di macchine, taxi, invitati in tiro pronti a una promettente serata di pubbliche relazioni.

    Tsukishima si era accodato a un gruppo di persone dall’aspetto molto formale e rigido, ed era entrato con loro, non senza scoccargli un’ultima occhiata accigliata.

    Del resto, era un evento speciale, quello, tutto incentrato sull’inaugurazione di una sala del Museo nella quale veniva esposta per la prima volta al pubblico la ricostruzione, con parti fossili reali, dello scheletro di un Wakinosaurus Satoi.
    Il Godzilla giapponese.


    Un pretesto, in realtà, Tetsurō lo sapeva: quello che contava in circostanze di quel genere non era tanto il dinosauro in sé ma le mani che si sarebbero incontrate e strette nel roof restaurant dopo la visita guidata. Mani in pasta su tutto, mani ufficiali, mani nascoste che muovevano fondi, comunicazione, opportunità.

    E a quel punto, a lui interessavano solo due mani in particolare. Mani bianche, dita affusolate, aperte a muro. Quanto avrebbe voluto sentirsele addosso, non riusciva a ricacciare indietro quell’ultimo desiderio che lo tormentava da anni.

    Uno squillo sul cellulare lo riportò con i piedi per terra.
    Bokuto, che era a Sendai su segnalazione del suo procuratore per valutare eventuali ingaggi.

    “Bro, come te la passi?” Il gufo, con il suo vocione. Il tono era quello di uno che voleva andare a bere qualcosa.
    “Bro, nonostante sia sabato sera sto lavorando…”
    “Tu lavori troppo. Dovresti rilassarti ogni tanto…”

    Il tono ora si arricchiva di altre sfumature.

    Bokuto era così, impulsivo e immediato, ti cercava un secondo dopo che il suo cervello gli aveva suggerito di farlo.
    Non era però sempre il cervello a muoverlo, c’era almeno un altro organo importante del suo corpo chiamato in causa - e in quella circostanza era certo che non si trattasse propriamente del cuore, ma di qualcosa di altrettanto grande e ingombrante sebbene di una sensibilità più terra terra - e dato che quella sera Tetsurō aveva affinato il naso e arricciato le vibrisse a causa del biondo, aveva il sospetto che il suo amico un po’ più che intimo volesse proporgli qualcosa da fare esclusivamente in due e certamente non in un luogo pubblico.

    Quella sera Tetsurō però non se la sentiva di cedere a certe tentazioni.
    Non che non gli piacessero certe situazioni con il suo Bro, che era un tipo divertente prima, dopo e durante e che soprattutto era una fonte inesauribile di idee geniali quanto a posizioni da tenere, per cui con lui gli amplessi erano sempre atletici e molto soddisfacenti.

    Il fatto era che, improvvisamente, il sesso cessava di essere un fatto divertente. Era un fatto serio, invece, un fatto di testa, uno dei tanti aspetti in una relazione che Tetsurō avrebbe voluto costruire con qualcuno e Bokuto era prima di tutto un amico un po’ sui generis, di cui non era innamorato e con il quale alla fine non c’era nulla da costruire oltre quanto avevano costruito già in anni di frequentazione.

    “Bro, non è serata…”
    “Uhm… non ti piaccio più?” Il gufo si lasciò sfuggire un lamento comico.
    “Stop! Frena… tu mi piaci, Bro, la tua autostima con me è a posto!…”
    Come farglielo capire?
    “Ecco… mettiamola così: non voglio staccare il cervello, stasera. Sto messo un po’ male, forse, ma stranamente mi va bene così.”

    Mentre parlava con il suo Bro, stava salendo le scale che portavano all’ingresso del Museo e già stava cercando il Quattrocchi con lo sguardo.

    Stavolta non avrebbe fatto passi indietro e sarebbe tornato alla preistoria - già, serata ideale quella, con il dinosauro! - al mondo ormai lontano, ai momenti fossilizzati nell’ambra della memoria del liceo.

    Voleva sapere di lui, del motivo per il quale aveva mollato i Sendai Frogs e del perché si stesse intrattenendo con quei personaggi di alta caratura.

    Improvvisamente gli venne in mente che forse Tsukki poteva essere diventato qualcuno di importante.

    Tsukki, come cinguettava sempre Yamaguchi. Chissà se erano stati insieme, se stavano insieme.

    Chissà se dopo quel bacetto consolatorio dopo il Kamomedai ce n’erano stati altri meno delicati, un po’ più come quelli che Bokuto gli dava quando lo inchiodava al letto con le sue ali spiegate.
    Un po’ come le altre cose poco delicate che facevano insieme.

    Sotto il corpo di Bokuto l’universo assumeva infatti contorni caotici, gli effetti del Big Bang continuavano a farsi sentire sulla pelle che bruciava sotto la scia dei suoi baci voraci, dati con le labbra spalancate, piene di sorrisi e ansiti.
    Peccato che non fossero innamorati, peccato che Bro alla fine rimanesse solo Bro.

    Chiacchierò ancora qualche minuto con il suo Bro, che nel frattempo si era ammansito e aveva accettato di andare in bianco.
    Rimasero d’accordo per un caffè da prendere insieme in stazione e si salutarono.

    Tetsurō respirò a fondo ed entrò nell’atrio, dove si era già raccolta una piccola folla attorno a una giovane donna in uniforme che era sicuramente una delle guide del Museo.
    Puntò dritto verso il biondo, che era in piedi accanto al guardaroba.

    La curiosità ha ucciso il gatto. Sì, d’accordo, però era anche vero che i gatti avevano sette vite. O erano nove. No, quelle erano le code.

    Suo malgrado, Tetsurō si trovò stampato sulle labbra un sorriso incerto ma ormai aveva deciso.
    Tsukki, Kei, era una calamita. Il polo negativo, probabilmente, di un circuito mai chiuso.

    “Tsukishima…” gli disse arrivandogli alle spalle.
    Lui si voltò e Tetsurō si trovò davanti il suo bel viso, gli occhi chiari grandi e luminosi.

    Kei aveva tolto gli occhiali e a lui aveva semplicemente tolto il fiato.



    (Continua...)


    Qualche nota: Kei e Tetsurō si affrontano per la prima volta in una amichevole fra il Karasuno e il Nekoma. Poi si rivedranno in un "training camp" durante la Golden Week e qui Tetsurō farà capire a Kei che deve impegnarsi non vuole rimanere indietro. Tetsurō ha diciotto anni, Kei sedici.
    Alla fine del manga, si scopre che Tetsurō va a lavorare per la JVA come promoter e che Kei, studia all'università di Sendai giocando nel frattempo in seconda divisione con i Sendai Frogs.
    I Jackals sono la squadra di prima divisione in cui gioca Shoyo Hinata, mentre negli Adlers gioca Tobio Kageyama, si affronteranno alla fine del manga in una partita memorabile.
    Akiteru è il fratello maggiore di Kei, protagonista di una vicenda di fallimenti sportivi sempre nell'ambito della pallavolo che lascerà a Kei l'amaro in bocca e che lo renderà ipercritico verso se stesso. Kei è infatti sempre in bilico fra l'amare e l'odiare la pallavolo.
    Bokuto è un "gufo", dal nome della sua squadra, il Fukurodani
    Tadashi Yamaguchi è amico di Kei dai tempi delle elementari
  14. .
    Ooooh Socia, un epilogo meraviglioso 🤩, in cui tutto trova posto: le scene di vita familiare in un interno, il racconto di cosa è accaduto nel tempo, tutti i tasselli che vanno al posto giusto 🥰. Che belli Rei e Genzo, che con le sue manone d’oro lo vedo prendere in braccio, cullare, coccolare tutta la famiglia.
    L’ego smisurato di papà Wakabayashi trova la sua giusta celebrazione 😂, i suoi primi quarant’anni andrebbero raccontati TUTTI.
    Geniale il finale con l’incontro fra i mangaka 🤩🤩

    A buon titolo, questa narrazione lunga e piena di percorsi paralleli è come se l’avessimo scritta in tre 😎 e ne sono ultra felice 😋!

    E sappiate che non è finita, vero SusinoSan… abbiamo rincominciato a impastare.. piano piano però 😉
    Grazie ancora per la tua meravigliosa ispirazione ❤️
  15. .
    Ciao!
    A tempo perso mi sto appassionando ai forum di scrittura creativa, e dal momento che le “altre storie” mi piacciono molto, e forse piacciono anche a voi, chiudo questa storia un po’ “particolare” con la solita challenge 😋, per cui chi vuole può mandarmi in privato uno o più “prompt”:

    - tipo personaggi (manga/anime o inventati)
    - tipo di coppia (non ci fossilizziamo, si può sperimentare 😉)
    - ambientazione (dove, quando)
    - una frase o una situazione che la storia deve contenere
    - se ci volete o meno Tetsurō ❤️😆

    Al solito, non so quando scriverò essendo già presa da uno spin off, però le idee sono ben accette, poi vi cito nei creditsss ☺️
    Alla prossima
    👋🙂👍
1131 replies since 12/9/2012
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