*Il Grande Sogno di Maya - ガラスの仮面 - Glass no Kamen  - Glass Mask - Manga, Anime, Drama

Votes given by LaraTania

  1. .
    CITAZIONE (LaraTania @ 10/5/2024, 22:08) 
    Eccomi! Ho provato a leggerla ieri...ma a parte l'invasione delle cavallette è successo di tutto!
    Finalmente venerdì e quale miglior dopo cena di un tuo capitolo????

    Mi piace tantissimo come stai svelando i personaggi a poco a poco, tra presente e ricordi.
    Non riesce a fare nulla di pratico perché ha le mani occupate a frugare nel passato.
    <3

    Gli chiede comunque di parlargli, si lascia avvolgere dalle sue parole, dai suoi discorsi pieni di subordinate di primo, secondo e terzo grado, che non sembrano trovare mai un punto. Si lascia inondare di ricordi, incontra nuovamente se stesso,
    ma che bello questo passaggio

    e qui
    Ed è di Midori che vorrebbe parlare con Kōtaro, vorrebbe guardare a quel fatto con i suoi occhi, per capire se c’è un modo per sopportarlo meglio.
    ho veramente avvertito tutta la sua sofferenza, una tenerezza incredibile

    con in capelli che sembrano saltati in aria sopra una mina,
    qui mi sono scompisciata dalle risate, mai descrizione fu più azzeccata, la userò anche per mio figlio quando si alza al mattino....dorme con la testa spiaccicata nella testata morbida del letto e l'effetto è praticamente questo.

    E il finale è un respiro di aria fresca , lui che trema e Keiji che stempera la tensione......

    Bravissima!!!
    Aspetto il prossimo

    Cara Lara, quanto ti capisco! Le cavallette fortunatamente non sono apparse neanche qui ma ci è mancato poco.
    Grazie, mi emoziona rileggere con te alcuni passaggi ❤️, e questo andare e tornare fra presente e ricordi è un po’ la chiave di tutto perché fa capire loro che un legame saldo ancora resiste, nonostante il tempo passato, e che c’è qualcosa di nuovo nell’aria anche se ancora non riescono ad appropriarsene.

    Ecco intanto il quarto 🥰



    Capitolo 4 - Due più due



    Non è vero che stava lavorando. Quando Kōtaro lo chiama, Keiji è ancora semivestito, sul letto. Ha dormito così, si è solo tolto la giacca e non ha neppure aperto il trolley.

    Ha dormito un sonno lungo e profondo, senza sogni. Un sonno che lo ha tenuto ben stretto tutta la notte. La sua emicrania è sparita, fino al prossimo giro. È rimasta solo una vaga spossatezza dovuta all’irrigidimento del collo e una leggera parestesia, ma l’occhio destro è ormai aperto.

    E vede nel passato. Anche lui vede il letto a castello, nel dormitorio dell’Accademia.
    Si era trasferito nella stanza di Kōtaro all’inizio del secondo anno, quando un senpai del terzo anno si era diplomato ed era andato via.
    Kōtaro glielo aveva proposto con un sorriso spontaneo e amichevole (Hey! Akaashi-san, si è liberato il letto sopra il mio, che ne dici di spostarti da me?? Sei l’unico che quando parlo sembra capire che cosa dico!!...) e Keiji aveva accettato. All’epoca era un ragazzo molto taciturno e Kōtaro lo aveva fatto subito entrare nel suo giro, essendo un tipo solare e molto popolare, e grazie a lui aveva stretto qualche amicizia anche fuori dal club di pallavolo.

    Era stato sufficiente un mese di convivenza per ritrovarsi confuso.
    Era bastato vederlo appena sveglio la mattina, con un’espressione placida e soddisfatta, era bastato sentirlo muoversi sotto di lui - quando Kōtaro si rigirava nel letto, tremava tutto e anche Keiji allora cambiava posizione.
    Era bastato parlare con lui al buio, sporgersi a notte fonda per sentire meglio il suo respiro profondo.

    Durante quei mesi, la sua emicrania si era quasi volatilizzata, solo in un paio di occasioni era stato abbastanza male da non poter neanche giocare e Kōtaro gli aveva portato da mangiare in stanza, facendo tutto al buio e nel mentre gli parlava a bassa voce. Parlava di niente, di tutto, di parole che non erano importanti in sé ma che erano calde e accoglienti come la sua voce.
    Quello stesso Kōtaro che spesso cedeva sotto il peso della sua stessa personalità espansiva e rumorosa e che doveva essere consolato e coccolato. Lo facevano tutti, ma era da lui che andava per primo.

    Akaashi, che cosa ne pensi? Akaashi, credi davvero che…? Akaashi, come faccio?…

    E Keiji si innamorava di ogni centimetro di quell’esperienza. Dal campo all’aula, dall’aula alla mensa, dalla mensa alla loro stanza, Kōtaro era sempre intorno a lui. Il suo corpo statuario lo attirava, lo faceva sprofondare nel materasso come se sotto al suo letto ci fosse il centro della terra ad attirarlo.
    È ancora così, del resto le leggi della fisica sono destinate a non mutare mai.

    Si alza e prende un caffè. Non ha detto a nessuno dei suoi familiari che è a Tokyo di passaggio. È venuto solo per visitare il tempio, perché proprio oggi sono esattamente due anni e un giorno che Midori è morta.
    Dopo una doccia veloce, andrà a trovare sua sorella.
    In bagno, si spoglia e raccoglie gli abiti sporchi in una busta di plastica, li rimetterà in valigia. Indossa l’unico cambio che ha. Si specchia. Ha sempre un aspetto terribile ma almeno è più riposato.

    Un’ora dopo, è al cimitero.
    Il cielo è grigio, qualcosa rimbomba da qualche parte ma ancora non piove.
    Sulla lapide di Midori c’è una foto che la ritrae a Londra durante un viaggio di studi. Era stata all’estero per tre mesi ed era morta appena una settimana dopo il suo rientro in Giappone.

    Durante quella settimana, Keiji aveva rimandato puntualmente un loro incontro per una serie di impegni che all’epoca gli sembravano importanti. Dopo quanto era accaduto, dopo un trauma come quello, una persona normale forse li avrebbe rimossi dalla propria mente.
    Keiji invece li ricorda ancora tutti: un giro al Centro Commerciale per acquistare un paio di jeans e una pendrive. Un lavoro arretrato da finire, appunto per via di quel giro al Centro Commerciale. Un aperitivo con alcuni colleghi, fra cui uno che gli piaceva e che sembrava ricambiare.

    I jeans nuovi non li aveva mai messi, erano da qualche parte nel suo oshiire, la pendrive invece l’aveva regalata al vicino di casa.
    Gli abiti che indossava quel giorno li aveva buttati nella spazzatura. Il tizio dell’aperitivo lo aveva bloccato.

    Aveva anche discusso con i suoi per la foto da mettere sulla lapide: loro avrebbero preferito uno scatto che le aveva fatto suo padre durante un’occasione di famiglia, mentre Keiji aveva voluto fortemente la foto scattata a Londra perché sicuramente Midori con la testa era ancora là, era appena rientrata, piena di entusiasmo e di progetti. Alla fine aveva vinto lui.

    Resta lì in piedi per il tempo necessario alle preghiere e ai rituali. Poi, ad alta voce, inizia a parlarle.

    Micchan, sono innamorato di Kōtaro Bokuto e vorrei avertelo detto. Vorrei averti detto che me ne vergognavo e che non avevo il coraggio di confessarglielo. Stasera lo vedrò. Che cosa devo fare? Io non credo di riuscire a… trattarlo come un amico.”

    A quel punto, gli arriva un messaggio:
    Hey hey hey! Dio della pioggia! Non portare nulla stasera, solo la valigia! Abbiamo i nanohana karashiae e ti faccio anche gli onigiri! Ecco il mio indirizzo…

    Keiji legge e rilegge quel messaggio.

    Non possono esserci risposte alla sua domanda.
    Anche Midori lo sa, mentre lo guarda allontanarsi, con il suo viso eternamente sorridente, eternamente rassicurante.


    _______

    “Pronto? Bro….?”
    “Oh, Ciao Bro!”
    “Sei ancora a Sendai?”
    “Sì. Ah, a proposito…volevo dirti che io e K…”
    “Bro, ma quella cosa che mi hai detto ieri che Keiji Akaashi 腔
    “… Innamorato di te. Beh?”
    “Ma come lo sai??”
    “Ho giocato diverse partite contro il Fukurodani, ricordi? Ero il capitano del Nekoma. Tetsurō Kurō. Quello alto con i capelli neri sparati ovunque che spesso ti murava. Però se ne è accorto prima Kenma, l’alzatore. Kenma Kozume, ricordi? Quello mezzo ossigenato.”
    “Mi aiuti a capire?”
    Tetsurō ride.
    “Non sono la persona più indicata a spiegare…" risponde poi con un tono strano e una risata sommessa.
    “In che senso?”
    “Bah, lascia stare… comunque: vi siete scambiati i numeri di telefono, giusto? Fattelo spiegare da lui, no?”
    “Eddai, quanto sei stronzo!”
    “Bro… magari non è più innamorato, e ci può stare dopo tutti questi anni… però ti garantisco che una volta lo era. Ti ricordi il giorno del tuo diploma? Sai che non mi piacciono le metafore feline ma a guardarlo sembrava che gli fosse morto il gatto.”
    “E perché?”
    “Dèi! Secondo te perché? Ma perché te ne andavi via, baka! Quanto fa due più due?”
    Gli occhi blu lucidi come biglie, la fretta di tornarsene a casa da solo invece di festeggiare con loro.
    “Quello che voglio dire è che magari, nonostante gli anni non gli è passata. Prendi me, per esempio… l’altra sera ho incontrato K…”
    “È che stasera lui…”
    “Cazzo Bro, MI FARESTI FINIRE DI DIRTI CIÒ CHE DEVO DIRTI??”
    “Scusa!”
    Tetsurō sospira.
    “Ho rivisto Kei Tsukishima. Ho capito che ero e sono innamorato di lui. Gliel’ho detto. Lui prova le stesse cose per me. Punto!”
    “Ah…”
    “Questo per dire che fra me e te non cambia assolutamente nulla… a parte il sesso.”
    “Ah…”
    “Ti dispiace, Bro?”

    Kōtaro dà finalmente un calcio al criceto che gli si è piazzato in testa e quello sfancula veloce. No, non gli dispiace. Continua a volergli un bene dell’anima, a Tetsurō, ma in questo momento il Bro è diventato una creatura totalmente asessuata. E non è perché si sia innamorato del Quattrocchi del Karasuno, è perché la semplice idea che Keiji Akaashi possa aver pensato a Kōtaro Bokuto in certi termini ora come ora gli fa venire voglia di tornare vergine e puro.

    “No. Va tutto bene.”
    “Ehi, sono serio, Kōtaro. Da come mi hai descritto il vostro incontro alla stazione, mi viene da pensare che Keiji abbia qualcosa in sospeso con te. Sta però a te approfondire. Sempre che tu lo voglia. Oggi vi vedete?”
    “A cena, e poi dorme da me. Così domani va direttamente alla stazione.”
    “Beh, in sé è una bella cosa, indipendentemente dal peso che vuoi dargli. Vivitela bene, passa con lui una serata piacevole. Non starci a pensare.”
    “Bastava non dirmelo!”
    “Bro, hai fatto comunque un passo avanti: non ti ho dovuto fare un disegnino…!”

    _______



    Più tardi, Keiji è sotto casa sua.
    Guarda in su, a cercare il tetto del palazzo in cui vive il suo senpai. È così alto che si stempera nel grigio del cielo, senza contorni, come se fosse fatto di nuvole.

    Sono quasi le diciannove e ancora non è piovuto.
    Citofona. Entra. Sale in ascensore. Ultimo piano.
    Trova la porta accostata.
    Nel genkan si toglie le scarpe.

    Quando entra in soggiorno, capisce che lo spazio di quel piccolo appartamento in un condominio di lusso è misurabile solo in metri quadri mentali. È tutto disordinato e dilatato: dischi, poster, dvd, tappeti e cuscini, il divano. Ogni centimetro vive grazie al casino che fa il suo amico.

    Casa sua invece è in un equilibrio perfetto che lo esclude, una casa con la quale, di base, non vuole avere a che fare e con la quale non interagisce se non per lo stretto necessario. La casa di uno che viaggia da anni senza pace.

    Sulle pareti ci sono foto in cui anche da lontano Kōtaro è riconoscibile per via dei capelli neroargentati e del sorriso, il suo marchio.
    Keiji lo vede così, moltiplicato ovunque, e si lascia bombardare.

    Kōtaro lo trova appena oltre l'ingresso, scalzo, con la giacca addosso e con le dita che stringono il manico del trolley.
    “Hey! Okaerinasai!”
    “Bokuto-san…” e Keiji si inchina.
    “Come stai?”
    “Bene”

    Lo pensa davvero, quella casa lo abbraccia e ora Keiji vorrebbe anche annullarsi addosso a lui, in grembiule da cucina e con un chicco di riso sfuggito alla sua golosità, in bilico sul labbro superiore.
    C’è infatti una questione non meno importante della nostalgia, della tenerezza, dell’amore ed è l’attrazione fisica.

    Totale, potente, persistente. È diversa da quella che lo agitava a scuola in sordina, è cresciuta in incognito durante quei dieci anni, esiliata da qualche parte ed ora eccola che si mette a proprio agio sul divano e lo guarda con aria di sfida.

    È terribile essere già arrivato a questo punto. È terribile esserci arrivato solo lui.

    “Dammi la giacca. Prenditi da bere in cucina, è quasi tutto pronto!”

    Kōtaro lo osserva. Si è fatto la barba, è vestito con cura. I tratti del viso sono dolci e seri. È Keiji dieci anni dopo ed è come se lo guardasse per la prima volta. E lo guarda bene, e… gli piace come… beh, in effetti gli piaceva anche dieci anni fa… ma ora per la prima volta riflette sul fatto che gli piaccia, e lo fa nell’unico modo in cui ci riesce: caoticamente. Parte dagli occhi blu, scende sugli zigomi alti, scivola sulle spalle.
    Torna su, verso i capelli neri, scende di nuovo giù, lungo i fianchi, le gambe. Nonostante sia più magro e non si alleni più ha sempre un fisico armonioso.

    E poi le mani. Le mani che gli aprivano la via del punto.

    Il cuore di Kōtaro non è più una volgare pompa e ora batte forte.
    Capisce che deve fare uno sforzo di volontà per mettere la cena in tavola ma alla fine ci riesce.
    Due più due fa ormai quattro.
    (Continua…)
  2. .
    CITAZIONE (LaraTania @ 19/4/2024, 10:05) 
    TOC TOC
    qualcuno ha notizie riguardo l'uscita del 5 volume tradotto de Il mio matrimonio felice ?
    Ho visto una edizione extra con belle illustrazioni uscita ora a marzo credo , ma non so niente sul 5

    In attesa che esca il tanto sospirato volume 5, ho acquistato l'edizione extra ovvero l'artbook. È bellissimo!! Intanto è in formato A4 quindi i disegni sono grandi (e a colori!). È suddiviso in 4 capitoli (L'incontro, Sentimenti che germogliano, Determinazione, D'ora in avanti) che ripercorrono la storia a noi nota, ma tolta una breve introduzione, ogni capitolo è una pioggia di tavole a colori e disegni che lasciano quasi senza fiato per la bellezza. In fondo, c'è un capitolo dedicato alla nascita del disegno di copertina dell'artbook. Venti euro sono forse un po' tanti, ma questo volume è davvero una delizia per gli occhi.


    Edited by Galadriel1978 - 9/5/2024, 11:30
  3. .
    😘


    Capitolo 3 - Cielo coperto


    Keiji si scalda le mani sulla tazza e il cuore sulla voce di Kōtaro. Per le prime, sa che quello del freddo alle estremità delle dita è un effetto del farmaco che ha preso, per il secondo sa che il ghiaccio che tintinna nella sua cassa toracica è duro da sciogliere ma nonostante questo sa anche che non può evitare di protendersi verso quel calore irresistibile, umano e animale allo stesso tempo, un calore che conosce benissimo e che gli ha reso quasi impossibile il suo secondo anno di liceo: l’anno della consapevolezza, del cuore sotto un costante e ossessivo controllo, del sapersi diverso e innamorato.
    È in quel momento esatto che Midori gli manca come l’aria perché finalmente è pronto a dirlo a qualcuno, è pronto a rendere reale e incontestabile il fatto che il suo cuore sanguina piano per Kōtaro Bokuto, talmente piano che così com’è, l’emorragia potrebbe durare per tutta la vita ma se scioglie troppo ghiaccio, la portata sicuramente aumenterà. È anche per questo che si è allontanato per anni da quel ragazzone che fa tremare le pareti della palestra e della sua anima.

    Gli chiede comunque di parlargli, si lascia avvolgere dalle sue parole, dai suoi discorsi pieni di subordinate di primo, secondo e terzo grado, che non sembrano trovare mai un punto. Si lascia inondare di ricordi, incontra nuovamente se stesso, il Keiji Akaashi di dieci anni prima che aveva, come unico problema, quello di non saper come gestire i suoi sentimenti e i suoi desideri - un suo alter ego a cui ora vorrebbe solo stringere la mano per salutarlo come si deve, come un fratello maggiore che già ha visto il peggio della vita. Ed è di Midori che vorrebbe parlare con Kōtaro, vorrebbe guardare a quel fatto con i suoi occhi, per capire se c’è un modo per sopportarlo meglio.

    Tutto questo, tuttavia, non esce minimamente dalla sua bocca. Le mascelle sono serrate, la lingua è immobile, i denti sono una gabbia. Forse, però, qualcosa trapela perché Kōtaro adesso non parla più ma lascia che le sue mani calino sul legno del tavolo, aperte, bellissime.
    Le tazze tremano, qualcuno si gira a guardarlo.

    “Keiji-san… che cos’hai?”
    La domanda è semplice e diretta ed è anche impossibile rispondere.

    Sono quasi le tre. Keiji sente che lo zigomo ricomincia a pulsare. Deve andare o morirà a quel tavolino. Deve dormire, deve sognare qualcosa che non lo porti ossessivamente alla ricerca di nuove, impossibili calligrafie sulla strada che ha inghiottito sua sorella.
    Deve spegnere cuore e cervello, scendere da quel treno.
    Si alza, anche se vorrebbe restare inchiodato alla sedia.
    “Bokuto-san… è molto tardi e io devo tornare a casa.”
    Anche Kōtaro si alza.
    “Ti accompagno? Sei certo di stare bene? Sono un po’ preoccupato…”
    “Accompagnami al parcheggio dei taxi. Basterà un po’ di aria fresca adesso e una buona dormita stanotte. Devo riposare perché fra due giorni sono di nuovo di partenza.”
    “Parti… già?”
    “Sì. Sto lavorando a Morioka. La mia casa editrice ha una sede distaccata.”
    Una specie di ripostiglio dove correggere bozze e sistemare refusi. Un posto più tranquillo - così ha deciso la commissione medica aziendale - ma non glielo dice, anche perché lo sguardo deluso di Kōtaro in quel momento gli stimola una tale ondata di serotonina che ingolfa i suoi centri nervosi sovrastimolati dall’infiammazione.
    “Keiji…”
    Ancora una volta il suo nome!
    “Posso, chiamarti, domani…? Magari, se ti senti meglio ci vediamo. Ti va?”
    “Sì”
    “Ma non ho più il tuo numero…”
    “Lo so. È che…”
    Keiji abbassa la testa e si vergogna del ghosting che ha inflitto a tante persone.
    “Non importa. Avrai avuto le tue buone ragioni per sparire e io non provo rancore… però… ecco… potresti decidere di non sparire più?”
    “Mi dispiace… Kōtaro. Mi dispiace essere sparito.”
    Lui spalanca gli occhi. “Dai, non parliamone più! Ci sentiamo
    domani.”
    Dopo essersi scambiati i cellulari, si salutano al posteggio dei taxi.

    In macchina, Keiji si lascia finalmente andare e piange silenzioso mentre la sua anima accartocciata piano piano si stira al pensiero di Kōtaro che lo chiamerà l’indomani, che tutto sembra essere ricominciato esattamente dal punto in cui aveva tagliato i ponti.
    Che il Keiji Akaashi di dieci anni prima, che voleva salutare, lo aspetta ancora.
    Quando scende dall’auto, osserva il cielo. Un’ombra lattiginosa lo ha invaso, e una lama di vento insistente scuote alberi e foglie. L’aria è elettrica e la pioggia arriverà sicuramente prima.
    L’emicrania del resto non sbaglia mai, semmai rifà i propri calcoli incessantemente.
    Akaashi decide di non voler più calcolare nulla.





    L’indomani, dopo una notte particolarmente agitata, Kōtaro si sveglia allo squillo del cellulare sul comodino.
    È Tetsurō, che dice di cose che deve raccontargli.

    Kōtaro non è mai stato possessivo con il suo Bro-Scopamico e, dopo aver ritrovato Keiji per un caso assolutamente fortuito, men che mai si sente di fargli pesare il fatto che la sera prima lo abbia lasciato da solo, eppure si diverte a piagnucolare per finta di tristezze e abbandoni e lo fa con le grandi doti attoriali di cui è famoso in campo.

    Intanto, in boxer e maglietta, scalzo e con in capelli che sembrano saltati in aria sopra una mina, si prepara una scodella di latte e cereali e racconta al Bro di Keiji e della strana impressione che gli ha fatto, risucchiando rumorosamente un primo cucchiaio di sbobba.
    E poi rischia di strozzarsi quando Tetsurō, dal nulla, gli dice Bro. Keiji è sempre stato innamorato di te. Sei un caso disperato…

    Con Tetsurō normalmente non parla d’amore, gli vuole un bene dell’anima e ci fa occasionalmente sesso, ma l’amore semplicemente… non saprebbe come rappresentarselo né come discuterne.

    Non crede di essersi mai innamorato in vita sua e se prima di scoprire le gioie del sesso occasionale con il centrale del Nekoma aveva frequentato qualche ragazzina delle medie o al liceo, paccandoci a tempo perso, non ha mai pensato a un altro essere vivente come possibile oggetto di una devozione maggiore. Unica. Esclusiva.

    È in dubbio se scaricare addosso al Bro altre domande, ma lui ora farfuglia di dinosauri e allora taglia corto.
    Anche perché è il suo cervello che è in corto.

    Si infila nella doccia e se chiude gli occhi vede quelli di Keiji.
    Innamorato di lui? Impossibile, sono anni che non si vedono, la parola sempre non ha forse bisogno di appigli concreti? E poi Keiji non ha mai detto, fatto nulla per…

    Sì, è sempre stato gentile, però.
    È sempre stato accanto a lui.
    Lo ha sempre aiutato nei momenti difficili.
    Gli ha messo felpe sulle spalle e sciarpe attorno al collo.
    Non gli ha fatto prendere né troppo freddo né troppo caldo.
    Ha smesso di alzargli la palla quando andava in burnout.
    Ha ricominciato ad alzargliela al momento giusto, un momento che sapeva riconoscere solo lui.
    Gli ha sempre aperto una via sotto rete.

    Ha tirato fuori il massimo da lui.
    Perché ha sempre creduto in lui.

    Perché Keiji è… Keiji.

    Kōtaro non si accorge nemmeno di aver chiuso il rubinetto della doccia. Resta immobile a sgocciolare acqua dai capelli ingombranti. Sente di nuovo la volgare pompa che batte forte e si fa strada in lui un pensiero fragile, talmente fragile che ha paura di frantumarlo se muove la testa. Un pensiero che è una sottile… speranza.

    Non ha mai avuto pensieri del genere per nessuno e la cosa lo conforta perché non ha esperienza né di successi né di fallimenti.

    Non sa individuare neanche un pretesto in particolare perché ne ha troppi fra cui scegliere. Troppi sguardi blu, troppi sorrisi, troppi gesti delicati e discreti - è incredibile!! Ha trovato la parola giusta al primo colpo! - troppi consigli dati con voce calma e rassicurante.
    E poi: la festa del diploma, i suoi occhi blu che brillavano come biglie lucide, le sue parole ridotte a zero, il suo no fermo e risoluto quando gli aveva proposto di riaccompagnarlo a casa. Lo sguardo sorpreso e grato quando gli aveva regalato la sua maglia numero 4.

    Kōtaro è ancora in accappatoio, sdraiato sul letto. Non riesce a fare nulla di pratico perché ha le mani occupate a frugare nel passato.

    Recupera gli ultimi momenti in cui lo ha avuto accanto, non riesce a capire come siano diventati poi attimi tutti virtuali, foto, chiamate al volo fra impegni di chissà quale importanza.
    Non capisce perché quegli attimi si siano fatti sempre più rari, non capisce perché si siano allontanati.
    Non capisce perché abbia permesso che lui
    si allontanasse.

    Non capisci un cazzo, Bro è il mantra di Tetsurō che ormai suona quasi come buongiorno o buonasera nelle sue orecchie.

    Ebbene sì, probabilmente non capisce davvero un cazzo che non sia come fare una caterva di punti o sistemarsi quei capelli assurdi.
    Deve parlare di nuovo con il suo Bro.

    Si affaccia alla finestra della sua camera da letto. Il cielo è grigio e fermo ma non sembra voglia piovere. La giornata però è brutta e mette a rischio qualsiasi idea da proporre a Keiji.

    Prende il cellulare e lo chiama, al diavolo.

    “Bokuto-san…”
    La voce dall’altra parte è bassa e forse ancora sofferente.
    “Oh scusa… ti ho svegliato? Scusa!”
    “No, no, ero già sveglio da un po’…”
    “Come ti senti?”
    “Meglio, grazie. Stavo lavorando.”
    “Ah, Scusa!”
    “Bokuto-san…”

    Ma Kōtaro è un torrente, si sente una merda. Non lo ha più cercato per anni. Non ha fatto neanche lui un piccolo passo ed è sempre stato lui, dei due, quello ad avere il passo più lungo. Poteva cercarlo, poteva trovarlo. Il minimo che ora possa fare è scusarsi. Non lo ha fatto ieri sera, lo fa in questo momento.

    “Scusami… scusami, Keiji!Scusami…”

    Keiji resta in silenzio. Poi risponde. Deve aver capito, forse.
    No, ha capito sicuramente, perché lui capisce tutto.

    “Non devi scusarti. Davvero… invece, come stai tu ?”
    Kōtaro è infreddolito. I piedi, soprattutto, che sono ancora umidi.
    “Non lo so. Mi sento strano, forse è questo tempaccio.”
    “Tu sei sempre stato sensibile al maltempo, in effetti. Ma per te è un fatto di… umore. Io invece sto male per gli sbalzi di pressione atmosferica.”
    “Stai male anche ora?”
    “No… però già ieri sera sapevo che fra oggi e domani sarebbe piovuto…”
    “Hey, ma chi sei, il dio della pioggia?”
    “Più o meno.”
    La voce di Keiji è un sorriso invisibile, un sussurro caldo, che lo asciuga all’istante.
    “Quando riparti?”
    “Domani mattina.”
    “Ti va se oggi ci vediamo?”

    Un rombo. Poi un altro. Sono ancora leggeri, piccoli avvisi di quanto si verificherà presto.

    “Mi piacerebbe molto. Ma con questo brutto tempo…”
    Kōtaro pensa e poi dice, senza tentennare. Organizza e risolve.

    Vede in lontananza un letto a castello e loro due che si passano la palla, nella piccola stanza dell’Accademia.
    Vede manga sul pavimento, blocchetti con gli schemi a rete, vede i suoi calzini appallottolati e quelli invece ordinati di Akaashi Keiji.
    Vede la sua giacca spiegazzata appesa alla sbarra del letto e quella di Keiji appesa alla gruccia.
    Vuole esattamente quello.
    Chiude gli occhi e stringe i pugni.
    “Vieni a cena da me, ti fermi a dormire e domattina riparti da qui.”
    Keiji respira piano. Non risponde subito e Kōtaro pensa di aver fatto un passo troppo lungo. Ma poi lui risponde:
    “Hai per caso un letto a castello, Bokuto-san?”
    “No!... però ho un divano letto spaziale!”
    “Allora mi adatterò.”

    (continua…)
  4. .
    Proseguiamo ☺️

    Capitolo 2 - Inaspettato


    Kōtaro è in fondo un ragazzo semplice.

    Lavoratore instancabile, quando si allena è capace di rimanere per ore a schiacciare diagonali e parallele, con il suo braccio destro che sventaglia veri e propri missili Katyusha.
    Forse è meno veloce e agile di Hinata ma i suoi colpi sono micidiali, rumorosi, eclatanti. Lo sono anche i suoi servizi al salto, quando li schiaccia l’aria stride al passaggio della palla, che dopo il rimbalzo sul parquet semplicemente fugge via, come se non volesse più avere a che fare con quella mano terribile. E i suoi compagni di squadra lo ammirano senza pudore, specie quando è l’ultimo a lasciare il campo. Fischiano, si gettano ai suoi piedi, lo adorano come una divinità pagana con la faccia di un gufo e il corpo di un ciclope. Solitamente, il carnevale finisce quando Atsumu Miya, che è il suo alzatore, si rompe definitivamente le palle. Anche basta!Gli dice imitando i gesti dell’arbitro che fischia la fine del set.
    Kōtaro allora capitola e accetta di andarsi a fare una doccia e nel mentre continua a saltellare e a scambiare versi strani con Hinata, l’unico che sembra capirlo davvero. Del resto, secondo Miya e Sakusa, entrambi fanno parte dello stesso regno animale.

    Dopo un allenamento, per quanto duro, Kōtaro si concede sempre
    un pasto abbondante, meglio se con i compagni di squadra.
    E poi un cinema, a volte, o un locale. O una passeggiata senza meta, per risucchiare nelle sue iridi spropositate le luci impazzite della città. Adora i colori, il casino, l’allegria senza capo né coda della sua città, adora viverci.

    E poi, a volte, ha anche una sana voglia di sesso.

    Kōtaro è semplice anche nelle questioni sentimentali. Non è innamorato di nessuno, è una specie di asceta mezzo monaco mezzo schiacciatore laterale che tuttavia tiene in grande considerazione le sue pulsioni sessuali, che rispetta e sente essere parte integrante del suo carattere così espansivo, e sa perfettamente quando dare loro sfogo e con chi.

    Tutte le volte, lui e Tetsurō Kurō si dicono che fra amici normalmente non accadono certe cose.
    Fra amici si esce a fare danni, si va a un concerto, a una festa. O semplicemente si chiacchiera sul divano davanti a una partita con una birra in mano. Insomma, non si finisce a letto insieme!
    E invece, tra loro due queste cose accadono. Accadono anche con altri, in verità, ma con Kurō è diverso, sono due perfetti scopamici (così li chiama Kenma Kozume, l’unico che lo sa - “Ma la vostra è una BokuKurō o una KurōBoku? Insomma, chi sta sopra e chi sotto?”. E loro due neanche si imbarazzano “È riduttivo!……”).

    Lo hanno fatto insieme per la prima volta, ai tempi del liceo. La loro prima volta in assoluto.

    La curiosità e la voglia poteva venirgli solo con il suo Bro, sudati dopo una partita e senza apparentemente altri desideri nei quali incanalare endorfine e adrenalina. Uno sguardo sornione, qualche battuta nell’aria da qualche giorno, un paio di commenti sulle ragazze così insignificanti che conoscevano, un paio di birre scure invece di una sana bevanda proteica e a casa di Tetsurō ci erano andati giù dritti, si erano strappati le tute di dosso, erano caduti dal letto, si erano rotolati sul tappeto.
    Avevano riso della situazione prima, dopo e durante.
    Prima perché ammettere con gioia di essere entrambi attratti dal loro stesso sesso li faceva sentire ancora più complici. Dopo perché potevano commentare il fatto compiuto senza ipocrisie.
    Durante perché… beh, giocare con Kurō senza vestiti addosso era stato come spararsi cinque set ai nazionali senza time out.

    Bro, posso fare… questo…?
    Mmm… Sì…
    E questo?
    … questo lo faccio prima io!
    Bro…. Ti piace?
    Tu che dici…
    Dico che….


    Si erano dati del tempo per capire se c’era altro oltre a ormoni e follia ma no, non c’era altro. Si volevano bene e basta e farlo era talmente divertente e liberatorio che ci erano ricaduti.
    Ci ricadevano.
    Spesso.
    Per questo quel sabato sera, a Sendai, Kōtaro telefona al suo Bro, che però lo manda in bianco. Ci può stare, se ha da lavorare - e anche lui non è a Sendai per svago ma per una questione di ingaggi a cui peraltro non darà seguito: c’è andato solo per una semplice formalità, nei Jackals sta da dio e vuole rimanerci ancora a lungo.
    E allora decide di ripartire subito per Tokyo, prende al volo l’ultimo Hayabusa che ci mette pochissimo, ed è talmente stanco che crolla quasi subito, sente quel languore che gli fa desiderare il suo nido in pieno centro, con le finestre insonorizzate e i suoi cuscini morbidi.
    Si addormenta in una carrozza che lentamente si svuota, cullato dall’andatura uniforme del treno.

    Lo sveglia il tocco gentile del capotreno, un uomo sulla sessantina, solenne, elegante, in guanti bianchi.
    Lo ringrazia, si stiracchia aprendo le braccia, getta nella pattumiera i resti della sua cena, afferra il borsone e scende.

    La banchina è abbastanza affollata perché sul binario adiacente nel frattempo è arrivato un altro treno.
    Cammina lentamente quando all’improvviso quelli davanti a lui si fermano tutti e si allungano a guardare, come se un ostacolo fosse comparso improvvisamente a fermare il loro flusso ordinato. C’è infatti un ragazzo per terra, con un trolley rovesciato e uno zaino aperto, il cui contenuto è sparpagliato sul cemento, e sembra essere in difficoltà.

    Kōtaro è alto e piazzato, si infila fra i curiosi, sbircia e poi nota qualcosa di familiare. Deve essere la forma delle spalle, o il colore e il taglio dei capelli, o il profilo, ora che lo guarda meglio.
    La linea delle labbra, strette e tirate nei momenti difficili. Gli occhi sottili. E le sue mani che brancolano aperte sul cemento, mani che conosce benissimo.
    È Keiji Akaashi.

    Lo chiama, si avvicina, si abbassa fino a inginocchiarsi accanto a lui. Akaashi è confuso eppure, stranamente, non sembra sorpreso di vederlo.
    È Kōtaro quello sorpreso.

    Sa che quello è Akaashi eppure è diverso, una specie di Non-Akaashi.


    Più magro, dimesso, disordinato. E Akaashi è tutto fuorché disordinato: è un ragazzo che brilla per la sua organizzazione, è l’anima del Fukurodani, è il luogotenente del coach. È colui che ha sempre tirato fuori il meglio dalla sua maglietta numero 4.

    Kōtaro non è mai stato bravo con le parole perché ne dice oggettivamente troppe e tutte insieme, smonta le orecchie a chi gli sta intorno, la sua è una comunicazione irruenta e convulsa.
    E in questo momento, tutto ciò che Akaashi ha sempre rappresentato per lui si sovrappone alle sensazioni che gli dà questo strano ragazzo inginocchiato sulla banchina, che porta il suo stesso nome e che ha il potere di silenziarlo letteralmente.

    Sono almeno due anni che Kōtaro non lo vede e non lo sente. A un certo punto il suo numero non ha mai più squillato e forse sta proprio lì la causa di questo senso di estraneità nella familiarità che lo fa ammutolire.
    Due anni che improvvisamente gli sembrano infiniti. Due anni che anche lui ha contribuito a scavare perché non lo hai mai cercato.

    Tende allora le mani verso di lui e lo aiuta a tirarsi su, anzi lo prende fra le braccia e subito nota che è più leggero di come se lo ricorda. Quando, in partita, dopo un punto, lo abbracciava e lo sollevava, sentiva i suoi muscoli tonici e guizzanti, meno sviluppati dei suoi ma allenati e armoniosi. Ora invece lo sente fragile, dimagrito. Diminuito.

    Raccoglie le sue cose sparpagliate, lo convince a fermarsi con lui a bere un tè. Gli porta zaino e trolley e nel mentre lo osserva.
    Sono soprattutto le spalle a colpirlo. Sempre larghe e sottili ma impercettibilmente curve. Il suo passo è sempre tranquillo ma affaticato. Cammina a testa bassa, come se stesse cercando qualcosa che ha perso e non riesce a ritrovare.

    Kōtaro non se lo sa spiegare in maniera esauriente - di solito con le parole non è bravo neppure a parlarsi da solo, va in confusione abbastanza facilmente, ecco perché a volte si smonta e l’intera squadra lo vede afflosciarsi senza un motivo apparente - ma il suo amico Akaashi in questo istante lo colpisce dritto in un punto del suo petto che normalmente lavora in maniera meccanica (il cuore è una volgare pompa che si comprime e si decomprime, diceva il suo professore di scienze all’Accademia). Decide che, qualsiasi cosa abbia Akaashi, resterà lì con lui, nonostante sia quasi l’una di notte. Decide di aver curadi lui ma in maniera discreta, di tenere la voce bassa. Soprattutto, decide di ascoltarlo, semmai vorrà parlargli.

    In stazione, entrano nel primo bar che trovano aperto. Un bar per viaggiatori anonimi, neon sparati a palla e musica commerciale, nonostante l’ora tarda.

    Una cameriera che sbadiglia porta al loro tavolo un vassoio con il tè e un paio di sandwich e poi sparisce.

    Kōtaro intanto si vede dall’esterno e non si riconosce. Normalmente, avrebbe già preso con lui un normalissimo discorso sul più e sul meno, adatto a una conversazione fra vecchi amici che il caso ha fatto ritrovare, ma non riesce a trovare un pretesto per iniziarla.

    La sua mente visualizza una specie di gomitolo del quale non trova il capofilo, il suo cuore rimbomba di qualcosa di strano perché è strano lo sguardo di Akaashi. Kōtaro non è bravo con le parole ma l’istinto lo avvisa che il suo amico sta ancora male e forse non è solo per l’emicrania.
    E, cosa inaudita per lui, Kōtaro continua a restare in silenzio.

    È Akaashi il primo a parlare.

    “Grazie, Bokuto-San. Un tè caldo era quello che mi ci voleva.”
    “Ma ti pare, Akaashi! Sono pur sempre un tuo senpai!!” E via sgranare gli occhi e a puntarsi il pollicione sul petto.
    Kōtaro sente lentamente riaggiustarsi la sintonia con il suo solito io, il chiacchierone infinito, e il motivo è il sorriso appena accennato ma infinitamente dolce di Akaashi, che gli fa sorridere anche gli occhi.

    Quegli occhi infatti non sono cambiati, sono sempre sottili e blu, pacati. Kōtaro li accoglie nei suoi, dopo anni in cui praticamente li ha visti solo in pessime foto caricate sulla chat del Fukurodani e poi neanche più in quella.
    Sotto quei neon sono naturali, bellissimi. Gli sono mancati.

    La volgare pompa intanto accelera ancora.

    “Beh… allora come te la passi?”
    “A parte l’emicrania? Bene…”
    “Ma non sapevo che ne soffrissi! Voglio dire, per due anni siamo stati ins… cioè abbiamo giocato insieme, dormito nella stessa stanza…”
    “In quei due anni non ne ho sofferto quasi mai.”
    “Già, me ne sarei accorto… anche se di solito eri tu quello che in generale si accorgeva di tutto…!”
    “Mi venivano soprattutto durante le vacanze o quando viaggiavo con i miei. Quando ero… lontano, insomma…”
    “E ora che siamo vicini? Come ai vecchi tempi!!” Tuona Kōtaro.
    La risposta che si aspetta è qualcosa del tipo e ora sto meglio ma l’emicrania mi ritornerà presto se non abbassi il volume, Bokuto-san e invece Akaashi risponde con un filo di voce chiudendo gli occhi “Continua a parlarmi, Bokuto-san.”
    Kōtaro allora non se lo fa ripetere due volte e lo sommerge di parole, letteralmente.

    Gli racconta di tutto, di più. Il capo del gomitolo è finalmente nelle sue mani e comincia a dipanarsi. Gli parla dei Jackals, della nazionale. Di come vive, dei vecchi compagni di squadra. Apre i cassetti della memoria e tira fuori di tutto, a mani basse.
    La Golden Week, le partite di qualifica, quel giorno che aveva dimenticato come si schiacciava una diagonale.
    Le sue depressioni estemporanee, passate alla storia del club di pallavolo del Fukurodani.
    La grigliata con il Karasuno, lo Shinzen, il Nekoma e l’Ubugawa.
    La sera in cui faceva freddo e Akaashi lo ha fatto rientrare in albergo perché non si ammalasse.
    E lentamente, con naturalezza, all’inizio senza rendersene conto, Kōtaro inizia a tirare fuori storie e ricordi che riguardano loro due soltanto.
    Ne è già consapevole, a modo suo, a livello istintivo, ma è mentre ne parla che comprende l’estensione di Akaashi nella sua vita, quanto sia ancora presente e importante.
    E un sentimento inaspettato si infila fra quelli che lo riguardano e a cui è già abituato: prova una terribile nostalgia. Gli manca anche se è lì, di fronte a lui, avvolto da un mistero insondabile, e sembra maledettamente fragile, talmente fragile che teme che la sua voce potente possa incrinarlo.

    Capisce poi che anche Akaashi gli sta parlando ma solo con gli occhi, i quali pur restando dolci si fanno impercettibilmente sempre più lontani ogni minuto che passa. È come se qualcosa lo stesse trascinando nuovamente in stazione, verso un binario qualsiasi che lo aspetta per portarlo chissà dove. Anzi, ci sta già andando chissà dove. È il posto da dove è venuto, il posto in cui ha vissuto da solo per tutti quegli anni.

    E a quel punto, Kōtaro si ferma, punta le mani sul tavolo e fa tremare le tazze ormai vuote.
    E poi glielo chiede, diretto e serio: “Keiji-san… che cos’hai?”


    Shoyo Hinata, dopo aver passato due anni in Brasile a giocare a beach volley, viene preso dai Jackals. La squadra è molto forte, grazie anche alla presenza di Miya, alzatore, e Sakusa, schiacciatore. I ragazzi si conoscono tutti dai tempi del liceo, quando si affrontavano al Torneo Nazionale.

    Kenma Kozume è il miglior amico di Tetsurō. Ex alzatore del Nekoma, dopo il liceo lascerà la pallavolo e diventerà esperto di videogiochi e influencer.


    (Continua…)
  5. .
    Ciao :bye: .
    Ecco lo spin off della storia pubblicata qualche giorno fa, dal titolo Di gatti, dinosauri e chiari di luna, ma si può leggere anche da sola.
    Siamo sempre nel mondo Haikyuu e i protagonisti sono Kōtaro Bokuto e Keiji Akaashi.
    Kōtaro e Keiji giocavano al liceo nella stessa squadra, il Fukurodani, rispettivamente schiacciatore laterale e alzatore.
    Io me li immagino esattamente dieci anni dopo il liceo - come per Tetsurō e Kei nella storia "principale" - della quale condividono cronologicamente gli stessi momenti.

    Come per le altre storie legate a questo fandom, qualche avvertenza d’obbligo: anche in questo caso, intreccio shonen-ai, linguaggio in minima parte “esplicito” e qualche tematica delicata.

    Per chi apprezza e ha domande sulla storia, son qua :bye:




    Titolo: Il dio della pioggia

    Autore: Bathsheba Everdene

    Protagonisti: Kōtaro Bokuto e Keiji Akaashi

    Breve Descrizione: Un incontro imprevisto e quel che viene dopo

    Numero di Capitoli: 6

    Contiene Spoiler: Per chi non ha letto "Haikyuu", sì

    Contenuti Erotici: Accennati







    Capitolo 1 - Con i guanti bianchi


    Triptano, pensa Keiji Akaashi mentre uno sbadiglio gli regala uno spasmo doloroso lungo lo zigomo.

    L'aura gli accarezza già la parte destra del viso e fra meno di quarantotto ore pioverà, ne è certo.

    Soffrire di emicrania, in fondo, è come avere capacità divinatorie.

    O forse, più semplicemente, è come avere una stazione barometrica trapiantata nel cervello? Fatto sta che ogni volta che Keiji accoglie il mostro in uno dei suoi emisferi, quello poi gli regala la pioggia: sono infatti gocce salate di dolore quelle che gli scivolano dall’occhio lungo la guancia e che preludono alle lacrime che cadranno dal cielo.

    Gli viene in mente Emily Tallis, in Espiazione. La sua emicrania descritta da Ian McEwan in maniera sublime come “una pantera in gabbia che si sposta indifferente alla sofferenza per il solo fatto di essere sveglia, per noia, per muoversi e basta, o per nessuna ragione, e senza alcuna consapevolezza”.

    Keiji odia la sua emicrania ma ne adora comunque le potenzialità letterarie. La sua, però, non è rappresentata tanto da una pantera quanto da un serpente, un serpente colorato che entra con prepotenza nella sua testa e scivola finché non raggiunge quel punto esatto che inizia poi a pulsare e che Keiji vorrebbe estirpare con le sue stesse mani.

    Piange senza volerlo, senza saperlo, quasi.

    Si asciuga le lacrime con un fazzoletto che ha in tasca, le soffia via dal naso mentre cede a un altro sbadiglio e con mano impaziente fruga nello zaino.

    Non ha la forza di guardarci dentro e le dita allora vagano e faticano fra gli appunti, il tablet, i resti di un panino, un libro, finché non trovano sul fondo una scatolina di cartone con una scritta stupida sopra, come lo sono tutte le scritte sulle scatole dei farmaci.

    La apre e tira fuori un blister tutto accartocciato e sprimacciato, che però contiene per miracolo un’ultima pasticca. La promessa della redenzione, la radice a cui afferrarsi mentre il terreno sprofonda.

    La manda giù a secco e aspetta. Serpente o pantera, quella è la gabbia, calata dall'alto sul mostro.

    Effetto rapido.

    Passano quindici minuti e il malessere si attenua, anche se non sparisce. Il grilletto non scatta più ma il suo sistema nervoso rallenta e la visione a destra resta offuscata anche se le lacrime cessano.

    Fra meno di quarantotto ore pioverà.
    Fra meno di quaranta minuti arriverà in stazione.
    Oggi sono due anni senza Midori.

    Sua sorella non aveva mai sofferto in vita sua di emicrania, eppure quando a Keiji veniva l’aura la sentiva anche lei.

    Capita, a volte, tra fratelli.

    Capita anche di morire e sopravvivere, e Keiji è il sopravvissuto, la sua aura in questo è una prova incontrovertibile.

    Anche la fortuna di aver trovato quell’ultima pasticca è una prova, la fortuna di non esserne sprovvisto, la fortuna di non aver attraversato la strada, come Midori, nel preciso istante in cui una macchina impazzita le veniva incontro, partita chissà quanti anni prima per raggiungerla proprio lì.

    Per nessuna ragione.

    Come la pantera della signora Tallis, ma più veloce.

    Quando sua madre lo aveva chiamato per dirgli di Midori, Keiji era in ufficio e era corso veloce in ospedale pur sapendo che il grilletto era ormai scattato, che la pantera era balzata con le fauci aperte e che la morte aveva preso ciò che doveva prendere. Era inevitabile, dopotutto si trattava di uno schianto ad almeno 80 km orari e prova ne era la lunga striscia di pneumatici sull’asfalto, sfumata verso la fine, come il tratto spazzolato in un'opera di calligrafia.

    Keiji aveva ragionato subito in termini di probabilità, per far sì che la disperazione non lo ingoiasse subito con un boccone solo, e aveva deciso che si era trattato sicuramente di un caso: non c’era stato un accanimento del destino, non si era trattato di sfortuna ma di una somma casuale di eventi che si erano trasformati in un fatto.

    È un fatto anche che Keiji abbia sofferto di depressione, un fatto naturale e necessario.

    È naturale che per un certo periodo di tempo abbia lavorato poco perché a corto di idee, è naturale che la sua casa editrice lo abbia messo a correggere bozze in un ufficio distaccato, per fargli cambiare aria. È naturale che diverse volte si sia svegliato di notte sudato e con il cuore in gola, sognando di guidare quella macchina e di sterzare. Di disegnare un tratto nuovo sull'asfalto.

    È naturale che abbia tagliato i ponti, finto di avere impegni, cambiato telefono, cancellato numeri.

    Un fatto a tempo indeterminato con cui ormai convive senza problemi.

    Si alza per andare alla toilette a sciacquarsi il viso.

    Il bagno della sua carrozza è fuori servizio ma quello della carrozza a fianco funziona ed è pulito - meno male, perché l’emicrania accentua la sua percezione dei cattivi odori.

    A quell’ora il treno è semivuoto, in parecchi sono già scesi.

    Si sciacqua il viso, esce dal cubicolo e naviga a ritroso per tutta la carrozza, sballottato come su di una scialuppa in mare aperto. Il triptano fortunatamente ottunde i sensi e anche i riflessi vagali, per cui la nausea è sotto controllo.

    Accade allora qualcosa che ha sempre a che fare con gli eventi che si sommano casualmente e si attestano poi come fatti.

    È un fatto che nella carrozza dopo la sua, verso la coda del treno, ci sia Kōtaro Bokuto, con la sua tuta dei MSBY Jackals, che dorme occupando quasi due posti. Keiji si ferma reggendosi con una mano al poggiatesta del sedile di fronte e resta in muta contemplazione di ciò che ha davanti.

    Kōtaro è immenso. Una gamba allungata sotto il tavolino, l’altra piegata e aperta, a mostrare l’interno della coscia, tesa e muscolosa. Le spalle sono rilassate, larghe. Accoglienti.

    La testa è reclinata verso il finestrino, dalle orecchie scende il filo degli auricolari. Le braccia, massicce, sono incrociate sul petto.

    Quando dorme è serio. Solenne, quasi.

    Il suo borsone giace sul sedile di fronte. Accanto, una busta di carta di una nota catena americana di caffè e dolci a buon mercato.

    Che schifo, ma ci può stare, Kōtaro è goloso.

    Keiji resta immobile e ringrazia il triptano perché gli rallenta tutto (tutto tranne il cuore, che corre esattamente come quel treno) e lo salva dalla tentazione di allungarsi su di lui e di svegliarlo con un colpetto sulla spalla, perché l’orologio dice che il treno è quasi arrivato a Tokyo e Keiji quando si tratta di Kōtaro si preoccupa sempre. Per un lungo istante, che lo tende come una corda, teme che il suo senpai rimanga a dormire sul treno, ma è solo un attimo. Sono finiti i tempi in cui Keiji interveniva sul continuum spazio-tempo per adattarlo a Kōtaro. Per farlo stare bene.

    Indietreggia di un passo, poi di un altro passo.

    Ci penserà il solerte capotreno, semmai, a svegliarlo con le sue mani inguantate di bianco, si è appena ricordato che il treno muore a Tokyo. Qualcuno lo salverà.

    Poi però smette di indietreggiare e si ferma.

    Keiji osserva ora le sue mani. Quante volte hanno salvato Kōtaro? Quante volte gli hanno alzato un punto, scatenando felicità, godimento, esaltazione laddove solo poco prima c’era stato smarrimento, difficoltà, estraniamento? Quante volte gli ha gridato tua, Bokuto-san!

    E perché ora è così difficile svegliarlo? Perché abbandonarlo al capotreno?

    Perché non lo ha mai cercato per dirgli di sua sorella?

    Negli anni si sono sentiti molto sporadicamente e Keiji non gli ha mai scritto nulla di personale, solo complimenti per le sue vittorie, auguri di compleanno e buon anno.

    Ha scritto soprattutto nella chat assurda che condivideva con gli ex compagni di squadra, i “🦉🏐Fukurodani Boys🏐🦉”.

    Cose da rimpatriata virtuale una volta ogni tanto, con un paio di giorni di messaggi fiume e poi silenzi lunghi mesi.

    Ti ricordi quel punto? Quella finale! Quel muro del Nekoma, il niente-tempo dei gemelli Miya!

    Sì, mi ricordo. E non provo nulla. Io non ci sono più.

    Poi, dopo Midori ha cambiato telefono e numero. Non ha importato la vecchia rubrica, solo il numero di Kōtaro che ha salvato come una reliquia ma che non ha mai chiamato.

    Un calo di tensione fa sfarfallare le luci.

    L’occhio destro è affaticato, semichiuso. Keiji si specchia nel vetro del finestrino e rabbrividisce: ha la barba cresciuta e in disordine, mezzo viso in parestesia, è vestito male. È inguardabile, se anche ci fosse una sola ragione valida per guardarlo.

    Riprende ad arretrare, quasi corre per tornare al suo posto.

    Ragiona sul da farsi: deve arrancare fino alla prima carrozza, in modo da scendere all’inizio del binario. E poi camminare veloce e perdersi nella folla. Un piano di semplice attuazione anche per uno che ha solo mezzo cervello funzionante e solo un occhio veramente aperto.

    Raccoglie zaino e trolley. Il cuore ormai va per conto proprio, l’ansia lo stritola, è come se sapesse che da un momento all’altro possa venire scoperto e catturato come un ladro. Come uno che ha da nascondere qualcosa.

    Il treno si ferma.

    Scende. Finisce in mezzo alle rapide di bagagli e gente che si saluta e si bacia. Cammina con difficoltà finché non inciampa e rovina sul marciapiede. Lo zaino è aperto e gli vola via tutto, anche gli occhiali.

    “Cazzo!” Geme. Se si abbassa e, soprattutto, se abbassa la testa, non si rialzerà mai più.

    Inizia a recuperare a tentoni gli oggetti sparsi intorno a lui, come se fosse diventato improvvisamente cieco, finché non sente una voce conosciuta che pronuncia il suo nome.

    Akaashi!
    Sei tu??


    La voce è immensa. Kōtaro ha un apparato di fonazione che produce suoni profondi e forti anche senza gridare. Possiede proprio un volume alto di suo e lo sente nonostante il vociare della folla che li circonda e la motrice dello Shinkansen Hayabusa che ancora fa rumore.

    Akaashi!

    Non ha più importanza se sia una pantera o un serpente a soffocare la sua lucidità. La mente si sintonizza su quella voce, quelle note gravi e solide che escono dalla glottide di Kōtaro e che si strutturano nella sua bocca.

    Un’ombra cala intanto su di lui, accanto a lui.

    “Akaashi, sei davvero tu?”

    Keiji geme di nuovo.

    “Non… non posso abbassare la testa. Non posso raccogliere nulla.”

    “Ti senti male??”

    “No. È l’emicrania. Ora mi passa.”

    “Aspetta, ti aiuto ad alzarti. Appoggiati a me!...”

    Ma Keiji non si appoggia, è Kōtaro piuttosto che lo agguanta e lo raddrizza. Keiji si sente improvvisamente come disarticolato, leggero. Kōtaro lo fa sedere su una panchina poco distante e si mette pazientemente a raccogliere tutto quanto è ancora disperso sulla banchina.

    Poi siede accanto a lui, con lo zaino in grembo.

    “Akaashi, dimmi ti senti meglio? Ma da dove vieni?”

    “Da Morioka. Per lavoro.”

    “Io da Sendai! Pensa che ho quasi beccato Tetsurō… ma poi… vabbè lasciamo perdere!!” Esclama a voce alta. “Da quanto tempo non ci vediamo? Il tuo numero…” Aggiunge poi ma con un tono più basso, meditabondo, guardando nel vuoto, come se davanti ai suoi occhi, anziché il cemento della banchina, ci fosse un abisso di eternità.

    Keiji si chiede la stessa cosa. Da quanto tempo non sente il suo respiro che a riposo è lento, profondo? Da quanto tempo non incrocia quegli occhi grandi, gialli, che sprizzano follia, che ti disarmano quando sono allegri e che ti sciolgono quando si fanno tristi?

    Forse da prima Midori… sicuramente, anzi.

    “Da un po’... è vero.” Risponde poi con un filo di voce. Se un po’ vale come misura. L'ha pescata da quello stesso abisso, forse.

    "Controllamo se ho recuperato tutto?...”

    Keiji si fa coraggio e abbassa lo sguardo verso lo zaino aperto. Stranamente, la testa non gli parte, l'occhio ci vede meglio. Il triptano ha fatto effetto? O non è stata piuttosto la cura, la calma, la vicinanza del suo amico a ridurre dolore e panico a brandelli? Stava fuggendo via e ora si trova sotto la sua ala. Sta meglio.

    “Dovrebbe essere tutto a posto. Grazie Bokuto-san.”

    Keiji si rialza ma canta vittoria troppo presto ed è costretto a sedersi di nuovo. È come se fosse svuotato. Se potesse chiudere gli occhi, riaprirli e trovarsi magicamente in camera sua, si infilerebbe nel suo letto così com’è adesso: vestito, sudato, con la barba, con i postumi dell’emicrania e del farmaco che ha assunto. E poi ha lo stomaco pieno di acido.

    Fa schifo. Sì, vorrebbe aver appena chiuso la porta del suo appartamento, che però è a quasi un’ora di metro dalla stazione. Anzi, è meglio che si avvii.

    Si alza nuovamente. Se cammina piano forse ce la fa.

    “Hey! Aspetta un attimo! Come ci torni a casa?” Chiede Kōtaro. Che gli afferra un polso con la sua mano grande e calda. Lo trattiene, non si fida.

    “C-con la metro...”

    “Ti va se ci prendiamo prima qualcosa di caldo?”

    “Ma è quasi l’una… non vuoi tornare a casa?”

    Kōtaro fa un sorriso che accorda perfettamente gli occhi enormi e la bocca.

    “No! Non se tu stai ancora così!”

    “Sto bene, davvero.”

    E a casa sua starà meglio, dopo una doccia. Perché se gli resta accanto, la sua vicinanza farà da calamita e gli strapperà dal cuore tutto: L'emicrania, Midori, la solitudine e qualcosa che per anni è rimasta come a pelo d’acqua, qualcosa che galleggia in un punto imprecisato della parte più giovane della sua anima.

    Non è vero che non prova nulla. Non è vero che non c’è più.

    Sono bastati dieci minuti per capirlo, con tutta l’emicrania.

    “Ascolta: ci prendiamo un tè e vediamo come va. Se ti senti meglio, ok, altrimenti a casa ti ci porta il tuo senpai!

    Kōtaro è serio, nonostante gesticoli vistosamente indicandosi con entrambi i pollici.

    Lo guardano tutti e in effetti è uno spettacolo, grande e grosso com’è.

    “Okay.” Risponde Keiji, altrettanto serio.

    Ha mille ragioni per rifiutare e nessuna ragione per accettare, ma in quel momento nella sua mente si invertono i poli della questione.

    Kōtaro lo aiuta ad alzarsi.

    “Grazie.”

    La motrice del treno si spegne di colpo e fa sì che trionfi uno strano silenzio, nel quale vibra solo un respiro profondo: quello di Kōtaro che si carica il suo zaino sulle spalle. Tira il trolley con una mano e con l’altra tiene i manici del suo borsone. Fa tutto lui, si carica anche del suo peso. E Keiji si sente leggero, finalmente. Il serpente non striscia più.

    Il capotreno con i guanti bianchi, in piedi davanti al muso del treno, si inchina al loro passaggio.


    (Alla fine del manga, di loro si sa che Kōtaro continuerà a giocare da professionista negli MSBY Jackals di Tokyo mentre Keiji andrà a lavorare per una casa editrice. Midori è invece un personaggio inventato da me.)

    (Continua)

    Edited by Bathsheba Everdene - 5/5/2024, 02:08
  6. .
    Il numero della rivista "Moe" con l' intervista alla Sensei di cui vi parlavo nelle precedenti notizie è uscito oggi 2 Maggio in Giappone... Le prime notizie che sono riuscite a trovare sono queste parole della Miuchi:

    "Recentemente sto provando a disegnare sul mio PC.. con l' aiuto del mio staff.
    . Qualunque cosa accada non rinuncerò a scrivere... Continuerò a fare del mio meglio per completare "La maschera di vetro"


    Non è la prima volta lo so che lo dice, ma mi illudo che disegni disegni e alla fine prima o poi tireranno fuori qualcosa... :languo:

    Appena "scopro" altro vi aggiorno :bara:
  7. .
    Che bella iniziativa! :clap: In Giappone fanno le cose in grande... :lol:
  8. .
    Ciao a tutte, condivido pure qui anche le curiosità:

    in occasione del 50° compleanno di Hana to Yume in Giappone sono stati decorati anche alcuni treni per l'occasione ... Qui le immagini con GnK IMG_20240423_232417
  9. .
    Eccomi LaraTania !
    Ho pensato di regalare a Kei soprattutto qualcosa da stringere fra le dita che non scivoli via come sabbia: nel manga di lui sappiamo che giocherà ancora a pallavolo e che studia all’università ma non sapremo mai che cosa combinerà e se troverà davvero il suo posto nel mondo. È un personaggio molto critico e cervellotico, ma anche molto fragile e delicato e almeno qui Tetsurō si prenderà cura di lui.

    Lo spin off è ancora in fase di creazione ma manca poco, avrà al centro altri due personaggi.

    Nel mentre, Il gatto e la luna sono sempre nel mio cuore e posterò presto un racconto in due parti ❤️
    A presto😘😘
  10. .
    Eccomi!
    Una storia davvero fresca e piena di ritmo, trovo che tu abbia una scrittura cinematografica 🤩. I dialoghi serrati lasciano trasparire il dato fondamentale che li rende perfetti l’uno per l’altra prima ancora di andare a “scomodare” gli ormoni, e cioè la facilità e la naturalezza con cui parlano.
    Ho trovato geniale il finale con lo svelamento dell’arcano 😀, nello scrivere la storia lei c’è andata molto vicina con i “pensati” di lui… il “resto” invece era giustamente tutto da vivere ❤️‍🔥!
    😘

    Edit: ma alla fine, fra i due qual è la differenza d’età 🤔

    Edited by Bathsheba Everdene - 27/4/2024, 19:25
  11. .
    Belle davvero❤️ Nonostante siano passati tanti anni,fà sempre un certo effetto rivedere queste copertine.
    Grazie Rossella :bara:
  12. .
    CITAZIONE (kirichan @ 24/4/2024, 09:34) 
    Ma che bella copertina! :inlov: Mi pare che non sia un'immagine nuova, ma mi piace comunque un sacco...

    Si infatti non è per niente nuova, anzi risale a parecchio tempo fa.

    È stata utilizzata sia come cover del volume 36 giapponese (prima edizione pubblicata nel 1989), poi è stata usata come cover di una videocassetta del vecchio anime nel 1996) e infine più recentemente come cover dell' ebook sempre del volume 36.

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    Volume 36

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    L' ebook

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    Cover VHS


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    Immagine di auguri


    Però è vero , risulta molto bella ugualmente queste copertina :love:
  13. .
    😘

    Seconda Parte



    Kei si ritrovò improvvisamente catapultato nel passato.

    Poco distante da lui, sulla strada che costeggiava il Museo della Città di Sendai, Kurō Tetsurō scendeva da un taxi, vestito con estrema cura.
    Lo vedeva osservare con un certo interesse l’enorme e moderno edificio di cemento e vetro che ospitava l’evento di quella sera. Evidentemente, stava venendo proprio lì.

    Come mai non aveva notato il suo nominativo tra gli invitati? Non aveva stilato lui le liste… forse quelle che gli avevano consegnato i suoi collaboratori erano incomplete?

    Mentre lo vedeva avvicinarsi alla scalinata che conduceva all’ingresso, Kei si aggrappò con la mente al ricordo di un’estate di più di dieci anni prima, al momento in cui, nonostante lo avesse già conosciuto in un’altra occasione, aveva guardato Kurō Tetsurō per la prima volta con attenzione, curiosità, timore e assoluta diffidenza.
    E attrazione.

    Tutto era partito da lì, dall’artiglio che il gatto era riuscito a conficcargli nel cuore. Il sospetto che nutriva nei confronti delle proprie inclinazioni sessuali si era trasformato in certezza al suo cospetto, e l’agnizione era stata potente e rabbiosa, benché nulla di tutto questo fosse trapelato durante quella infinita Golden Week.

    Nella palestra numero 3 del Liceo Shinzen si era così trovato a dover affrontare le sue frustrazioni per la pallavolo e quelle legate al suo corpo che si risvegliava da una specie di letargo autoindotto, e tutto a causa di un bel ragazzo come probabilmente ce n’erano tanti in giro… ma lui era lui!

    Kei allora aveva quasi sedici anni, era un primino taciturno, indietro rispetto al resto della squadra, demoralizzato, fuori tempo, in guerra con se stesso perché non voleva annullarsi, come aveva fatto suo fratello Akiteru, davanti agli impossibili sogni di gloria di un club di pallavolo.

    Kurō invece appariva sicuro, dominante. Largo di spalle, testa alta, occhi taglienti come lame, voce anche più tagliente.
    Lo chiamava, lo trascinava sotto rete, lo ammoniva, gli diceva cose che non lo offendevano benché lo colpissero per la loro franchezza.

    Era stato anche grazie a lui se non aveva gettato spugna e ginocchiere e aveva proseguito. Nel tempo, aveva dovuto ammettere con se stesso che se all’epoca aveva deciso di rimanere in campo a giocare, era stato soprattutto perché in questo modo era sicuro di rivederlo.

    Gli anni erano passati così, con Kurō avversario di giorno e trasformato, di notte, in una specie di sogno proibito, blindato, ricorrente e bagnato.

    Solo Yamaguchi aveva intuito che qualcosa lo agitava e lo spazientiva, ma Tadashi lo conosceva ormai da una vita ed era stato anche per quella ragione che proprio con lui Kei aveva ceduto.

    Si erano scambiati il primo bacio ai nazionali, nello spogliatoio, e poi c’era stata una sola prima volta, consumata con impazienza in camera sua un giorno che i suoi erano partiti e Akiteru era in trasferta con la sua patetica squadretta universitaria.

    Aveva passato quel pomeriggio a farsi fare cose che avrebbe voluto gli facesse qualcun altro.
    Un’estasi violenta e disperata, la sua, la prima estasi causata del contatto ravvicinato con un altro corpo.
    La verità nuda e cruda raccontata però alla persona sbagliata.

    Tadashi, che gli voleva bene, aveva poi incassato il suo rifiuto ad avere una storia con lui. Tadashi, che ora aveva un compagno ed era felice.

    E poi, una sera di pochi anni prima, aveva preso in pieno un colpo che non si sarebbe mai immaginato di incassare.

    I Jackals avevano vinto contro gli Adlers e Kei era fuori del palazzetto dello sport ad aspettare Hitoka, che era andata insieme a Tadashi a riprendere la sua auto nel parcheggio.
    Aveva visto uscire Kurō insieme a Bokuto, lui in abbigliamento formale, una targhetta visibile sulla giacca, e l’altro con l’uniforme della squadra.
    Non li vedeva da tempo e mentre Kurō appariva solo un po’ più alto e sempre meravigliosamente piazzato, Bokuto era diventato ancora più imponente.

    Non aveva fatto in tempo a gestire la sorpresa che aveva visto Bokuto allungare le mani sul viso di Kurō per poi baciarlo con avidità. Gli aveva detto qualcosa all’orecchio, Kurō aveva annuito con un sorriso spudoratamente complice ed erano spariti dentro un taxi.

    Una settimana dopo, il professore che stava seguendo la sua tesi di laurea in Paleontologia e per il quale già stava lavorando al progetto sul Wakinosaurus Satoi, lo aveva convocato nel suo studio.

    La facoltà aveva bisogno di persone come lui, metodiche nello studio e dal grande potenziale. Si era liberato un posto come assistente e con il suo curriculum, gli esami in regola e i suoi risultati, se avesse accettato di intraprendere la strada accademica avrebbe potuto entrare a far parte del board scientifico che supervisionava il progetto sul dinosauro, collegato al Museo di Sendai.

    Questo però avrebbe richiesto da parte sua una concentrazione e una dedizione totali alle attività dell’Ateneo.

    Kei, che era bravo in matematica, aveva capito subito che quattro ore di allenamento quattro volte a settimana, più le partite con i Sendai Frogs, non sarebbero state gestibili da parte sua con quel nuovo carico di lavoro e aveva preso la sua decisione, tanto non sarebbe mai passato nella Prima Divisione, giocava per inerzia ormai mentre all’università poteva finalmente trovare la sua strada.

    Soprattutto, allontanarsi definitivamente dalla pallavolo lo avrebbe aiutato ad allontanarsi da Kurō, il fantasma sempre in agguato, il fantasma che baciava un uomo e che per quel preciso motivo si riaffacciava, stavolta però fatto di carne, sangue e ossa.
    Fatto di parti nascoste a cui ora pensava in maniera ancora più ossessiva. Esattamente come in quel preciso istante sui gradini del Museo. E quando gli occhi di Kurō, che si erano lasciati distrarre dalla magnificente modernità esteriore del Museo intercettarono i suoi, Kei comprese che non era affatto finita e il solito automatismo, il gesto che da solo teneva in equilibrio tutti i suoi nervi scoperti, si manifestò con lentezza rassicurante: la sua mano si sollevò e le sue dita sistemarono sul naso la montatura degli occhiali.

    Era nervoso ma gli sarebbe passata.

    Gli rivolse uno sguardo rigido, e quasi neanche rispose al suo cenno di saluto. Quello non era un palazzetto dello sport o una palestra, era finalmente il suo territorio, e lui non era più un primino frustrato o un giocatore a metà: era Kei Tsukishima, laureato in Paleontologia, relatore di un progetto prestigioso, pronto ad accompagnare in sala il sindaco e il ministro.

    Nessuno poteva soffiargli il posto, non c’era un Hinata più bravo di lui a farsi strada, un muro più alto.
    Stavolta era lui, il muro.

    Il Preside della facoltà gli fece cenno di accompagnare gli ospiti d’onore nell’atrio, il primo gruppo era pronto.

    Si voltò nuovamente verso la scalinata. Kurō era al telefono. Gli lanciò un’ultima occhiataccia e rientrò, pregando che fosse abbastanza chiara la sua non volontà di interazione.

    Continuava ad avere il suo problema con gli occhiali. Sentiva piccole gocce di sudore che gli imperlavano il naso. Li aggiustava e riaggiustava ma continuavano a scivolare e finalmente, quando ebbe affidato alla guida il primo gruppo, si avvicinò al guardaroba alla ricerca di un fazzoletto.

    Il secondo gruppo si stava lentamente formando. Se Kurō si fosse aggregato a quello, per una mezz’oretta, la durata media della visita, non avrebbe rischiato nulla, e alla caffetteria del roof ci sarebbe stata troppa gente per fare conversazione libera.

    Respirò a fondo e poi sentì la sua voce alle spalle.

    “Tsukishima…”

    Si voltò e anche senza gli occhiali, che stava pulendo con il fazzoletto, riuscì a vedere chiaramente quegli occhi assassini, che bucavano anche la nebbia che lo circondava.

    Istintivamente tentò di sistemarsi le lenti sul naso anche se ce le aveva in mano.

    Con estremo imbarazzo, le reindossò velocemente, sperando che lui non avesse colto quell'atto mancato che raccontava tutta la sua agitazione.

    Il giovane uomo che aveva davanti non era cambiato molto. Era più affascinante, con quel completo da manager, il distintivo della JVA, la peluria leggera che gli accarezzava le guance. I soliti capelli corvini, assurdi, i soliti occhi magnetici che vedevano anche al buio.

    Riuscì a formulare un’unica domanda sensata, banale, utile.
    “Kurō. Come mai sei qui?”
    “Mi avete invitato voi, credo.”
    “Non io. E non immaginavo…”
    “Che potesse interessarmi la cultura?… Mi sottovaluti, Quattrocchi.”
    “Scusami. Non volevo insinuare nulla, solo che non mi aspettavo di vederti qui a Sendai e per giunta qui al Museo. Mi dai l’aria di essere una persona sempre molto occupata.”
    “È vero, sono venuto a Sendai anche per alcune attività dell’Associazione. E poi c’è anche Bokuto, qui in città.”

    Kei smise di colpo di sudare. La nota fredda della delusione lo percorse tutto, dalla testa ai piedi. Era venuto per lui, quindi

    “Ah. Capisco.”
    Una voce impostata e gentile si infilò allora nella loro conversazione.

    “Professor Tsukishima, mi scusi... il Direttore la sta cercando e la attende di sopra in caffetteria.”
    La giovane addetta del Museo si inchinò e tornò ad accogliere gli invitati.

    Kurō si lasciò sfuggire un fischio basso.
    “Però… professore! Mi sono perso un po’ di puntate. Ora sei a buon titolo ancora più Quattrocchi di prima.”

    Lo disse senza la sua solita, fastidiosa ironia. Era cordiale, tranquillo, mentre Kei sentiva il cuore in una morsa gelida, che batteva veloce e con un rumore di vetri infranti.

    Era il momento di andare.

    “Buona visita, Kurō."
    “Grazie. Ehi ma…”


    Non gli lasciò finire la frase e salì le scale che dall’atrio e dal guardaroba conducevano al roof.


    Era pur sempre una serata di lavoro, una cosa seria, più seria della pallavolo.
    Più seria di ciò che continuava a provare con ostinazione per quel giovane uomo atletico e a suo agio in una tuta da ginnastica come in un completo, che mostrava al mondo tutta la sua sicurezza senza ostentarla.

    Non ascoltò assolutamente nulla di quanto gli venne detto durante l’aperitivo al roof. Incassò i complimenti senza battere ciglio, infilandoli da qualche parte a sostegno di ciò che rimaneva del suo amor proprio, fatto a brandelli da quel maledetto gatto nero.

    Eppure si ostinava a guardare che ore fossero, a sobbalzare in ansia tutte le volte che sentiva voci nuove entrare in sala.

    Il suo gruppo si presentò, alla fine del giro, ma lui non c’era.

    Se ne era andato! Ma era quello che voleva, no?
    No, non lo voleva.
    Sì che lo voleva, altrimenti non lo avrebbe trattato con quella freddezza
    Ma no, era disperato all’idea che fosse svanito nel nulla...

    Imbastì una serie di scuse convincenti e scese a perlustrare il territorio.

    L’ultimo gruppo stava lasciando il padiglione.

    Navigò controcorrente verso la sala che intanto si era svuotata.

    Kurō era lì, seduto al centro della sala, su una panca, al cospetto del dinosauro.
    Lo fissava attentamente e solo quando fu abbastanza vicino si accorse di lui.
    “Però. È impressionante.”

    Si spostò lentamente per fargli spazio. Kei, in silenzio, si sedette accanto a lui, percependo chiaramente il calore del suo corpo.

    “Ci sono voluti quattro anni per ricostruirlo a partire dai fossili che abbiamo ritrovato.”
    “E tu sei stato bravo, vero?”
    “Sì.”

    Era la verità.

    “Sai che cosa mi sembra, visto da qui? Un giocatore che sta aspettando la palla! Osserva bene: le zampe posteriori piegate, una in avanti, le zampe anteriori tese verso l’alto. Un Mikasa o un meteorite?”

    Kei sorrise. La tensione stava inspiegabilmente scemando.

    "Vediamo... se dall'altra parte della rete ci fossero Ushijima, o Azumane... forse la seconda delle due!" Esclamò Kurō ridendo.

    “Non riesci proprio a pensare ad altro che non sia la pallavolo?” Replicò Kei con il tono ironico che riservava a persone come Hinata e Kageyama, alle persone assurde, insomma.

    Si aspettava una risposta a sua volta ironica ma così non fu.

    Kurō si era girato verso di lui, ignorando ora il bestione fossile.
    “A dire il vero, in questo momento sto pensando ad altro…”

    Gli occhi del gatto trafficavano con i suoi e Kei lo avvertiva chiaramente ma non riusciva a capire né a chiedergli perché lo stesse fissando così.

    “Professor Tsukishima, il sindaco vorrebbe salutarla.”
    La solita solerte giovane addetta del Museo interruppe il flusso dei suoi pensieri.

    Kei si alzò di scatto. Meglio tagliare corto.

    “Devo andare. Spero che la visita sia stata di tuo interesse.”

    Kei…”

    Si voltò lentamente verso la voce che lo aveva chiamato per la prima volta con il suo nome.

    “S셔
    “Hai un po’ di tempo, più tardi? Per bere qualcosa.”
    “Con me? Non hai nulla di meglio da fare?”
    “È proprio la cosa migliore che io possa fare, invece.”

    Kei stemperò la confusione nell’unica maniera che gli era congeniale. Pianificando.
    A quel punto, non gli importava di essere un rimpiazzo per passare un po’ di tempo se Bokuto non era disponibile.

    “Fra tre quarti d’ora sono libero. Il Museo chiude ma la caffetteria resta aperta. Mi trovi lì.”

    (Continua…)
  14. .
    Buongiorno forum,

    Altra piccola novità qui di seguito la copertina del prossimo numero della rivista "Moe" sempre di casa Hakusensha e sempre per commemorare i 50 anni di Hana to Yume. Proprio in Moe nel numero che uscirà il 2 Maggio viene annunciata un' intervista alla Miuchi...

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  15. .
    Grazie Rossella, quante belle cose!
    Mi sembra evidente che GnK sia tuttora uno dei manga (se non "il" manga :lol:) di punta della rivista, almeno a giudicare dai numerosi extra che gli sono stati dedicati. Anche la carta colorata con autografo della Miuchi è la prima della serie e nell'immagine promozionale è più grande delle altre! :]
    Bello il montaggio dei video, Maya ha diverse immagini significative... :lovvv:
1008 replies since 18/11/2021
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