*Il Grande Sogno di Maya - ガラスの仮面 - Glass no Kamen  - Glass Mask - Manga, Anime, Drama

Votes taken by The Sound Of Silence

  1. .
    Care forumine, vecchie e nuove, auguro ad ognuna di voi una felice conclusione di questo 2016 che è ormai arrivato al suo termine.
    Si volta pagina, dunque, sperando che questo nuovo anno sia migliore di quello passato.
    Ho imparato che serenità e salute sono le cose che più contano veramente e sono quelle che auspico a tutte voi.
    Buon Anno, forumine. :bara:
  2. .
    Sembra quasi finto... una visione che cattura il cuore dello spettatore con la lucentezza dei suoi colori e quell'atmosfera quasi onirica che lo permea.
    Un'immagine che parrebbe appartenere solo al mondo dei sogni, ma che corrisponde invece alla realtà.
    E' stato ribattezzato "Lo stagno di Monet" e non è difficile capire il perché. :love:

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  3. .
    Wow! Sembrerà stupido ma, sebbene sia sempre stata curiosa di assistere a questa “cerimonia”, non ho mai pensato di cercare un video per osservare la vestizione del kimono (sono proprio tonta a volte, lo so :sudo:).
    Per questo, grazie Arlaune. Ho apprezzato davvero molto l’idea di aprire questo topic. :arigato:
    A riguardo, qualche tempo fa ho avuto modo di leggere un articolo su quest’abito tradizionale. Io l’ho trovato molto interessante. Alcuni dettagli sono già stati citati nel primo video da te postato, ma se vi può far piacere, ve lo riporto volentieri.


    **********



    Il kimono… è l’esatto opposto di qualunque idea di funzionalità; è tanto costoso quanto scomodo; rappresenta la rigidità della virtù, dell’ordine, della modestia, ossia quanto di più indigeribile per una donna che voglia essere (e alla quale venga chiesto di essere) moderna, attiva, propositiva. Eppure in pieno XXI secolo, sono assai poche le ragazze giapponesi che non abbiano mai indossato o desiderato indossare un kimono; ancora meno sono le mamme il cui sogno non sia di vedere la figlia avvolta da un frusciante e sgargiante furisode, il kimono per le giovani “da marito”.
    Tutte d’accordo, le signore, anche nell’affermare che un uomo in kimono è più bello e interessante di un uomo in jeans.
    Insomma, il kimono è tutt’altro che morto, anche se le donne oggi vogliono accavallare le gambe e gli uomini non sono più samurai.

    Nulla a che vedere con i “costumi tipici” che da noi vengono esibiti a uso dei turisti.
    Ci sono certi momenti, alcune scadenze precise, in cui il kimono affiora e si impone: la presentazione al tempio, la laurea, il matrimonio, i funerali, la morte. Tutto inquadrato in un intrico di regole tanto numerose quanto sottili: gli sbagli sono per chiunque sempre in agguato. Tanto più lo sono oggi, dato che il kimono rappresenta uno strappo alla quotidianità.

    Ecco perché continuano a fiorire le accademie – coadiuvate dai più moderni sistemi di insegnamento – per chi voglia imparare il corretto portamento, il più idoneo accostamento di colori, il modo di vestirsi, già di per sé una specie di cerimonia che dura almeno un’ora, e perfino come ripiegare l’abito.
    Quello che viene insegnato è il kimonese, una lingua senza suoni ma con una straordinaria molteplicità di significati e di sottintesi.
    Nulla di straordinario: a qualunque latitudine e in qualunque civiltà, l’abbigliamento ha un apparato simbolico, importante quanto la concreta necessità di ripararsi dal freddo o soddisfare il pudore. Ma il cammino parallelo di wafuku e yofuku, gli abiti tradizionali e quelli di foggia occidentale, ha creato in Giappone una duplicità di codici che richiede ripassi, specie per evitare che la grammatica e la sintassi di una lingua si riversino in modo cacofonico nell’altra.
    Che poi a questi due mondi, rigidamente separati, se ne possa aggiungere in futuro un terzo, fatto di casuali o volute contaminazioni, resta un interrogativo tutto da sciogliere.

    Intanto qualcosa si muove. Nei matrimoni, l’occasione più ghiotta per sposi e invitati di vestirsi secondo tradizione, il tipico abito da sposa occidentale sostituisce sempre più spesso il kimono candido, anche se poi la sposa correrà a cambiarsi subito dopo la celebrazione per indossare il suo ultimo furisode e poi ancora il suo primo tomesode a sfondo nero da signora.

    Anche lo yukata, il più semplice, leggero ed economico abito che rientra nella categoria dei kimono, sta guadagnando terreno.
    Nelle stazioni termali è normale passeggiare indossandolo, ma ormai anche nelle grandi città si vedono giovani coppie, in estate, andare in giro con lo yukata. Si fanno anche ardite fusioni stilistiche, come calzare scarpe coi tacchi anziché i canonici geta di legno o gli zori di cuio rivestiti di stoffa.
    Questa avanzata dello yukata è davvero innovativa perché nella rigida divisione tra wafuku e yofuku , cominciata intorno al 1880, l’unico tipo di abito “giapponese” salvato dal vortice della modernità occidentalizzante è stato quello da cerimonia.
    Non fu un caso, bensì una precisa scelta politica da cui il Giappone di oggi è ancora condizionato. Una scelta fatta da una classe dirigente di stretta ascendenza samurai, ma già proiettata verso quel nuovo tipo di economia e di organizzazione militare che avrebbe presto trionfato.
    In questo senso il kimono costituiva e costituisce tutt’altro che una reliquia del passato, una sopravvivenza a metà strada tra il romantico e il patetico. E’ un preciso veicolo di stabilità sociale, il traino dell’apparato culturale che ancora nutre il nazionalismo nipponico. E secondo questo apparato lo yukata sta ai margini: indica il limite di informalità consentito.
    In teoria non gli sarebbe permesso di suggerire il cambiamento.

    La teoria, invece, accetta senza problemi la schizofrenia. Ha detto bene Liza Dalby, scrittrice, antropologa e soprattutto unica occidentale che sia davvero diventata una geisha: “La tattica vincente dell’establishment pro wafuku è sempre stata quella di incoraggiare le giovani donne a scoprire un nuovo sé nel kimono”. Un concetto così riassunto da un’inserzione pubblicitaria: “Cambiare abito dal profondo del proprio cuore” .
    La voglia, la disponibilità, ci sarebbero. Quello che trattiene è semmai il costo proibitivo. E se la scelta, al momento della laurea o del raggiungimento della maggiore età, è tra un master all’estero o un furisode, anche il fascino del kimono vacilla.

    In tutti i centri commerciali di Tokyo c’è un settore dedicato al kimono, ma di clienti se ne vedono pochi.
    Seibu è uno dei più forniti. Il signor Mitani, capo delle vendite nella filiale di Ikebukuro, non sembra avere molto da fare e mostra orgoglioso i tagli di stoffa esposti. Ammette che difficilmente arriva a venderne due al giorno. Non è colpa della disaffezione verso tale indumento, ma della crisi.
    Non vale la pena di avvicinarsi se si hanno meno di 5mila euro, ma per non fare figuracce ce ne vogliono almeno il doppio.
    La stoffa – che tranne rare eccezioni è seta – è solo una voce della spesa complessiva, anche senza contare il lavoro di sartoria, limitato ad un assemblaggio secondo regole fisse.
    Importante e costoso quanto l’abito è l’< i >obi, una fascia damascata lunga circa 4 metri e alta poco meno di 60 centimetri (indossata appare più bassa perché viene piegata a metà); e poi ci sono scarpe, borsetta, haori (giacca) o scialle, la veste da mettere sotto al kimono, che diventa visibile a livello del colletto. Né si può fare a meno di mille altri accessori, in particolare corde, cordicelle e fermagli, indispensabili per dare al vestito la lunghezza desiderata, 6 centimetri sopra i piedi, e tenere tutto al posto giusto.

    Certamente oggi ben pochi possono permettersi di avere tanti kimono quanti ne richiederebbe l’etichetta.
    A parte quelli “speciali” per i matrimoni e per i funerali, va valutata la formalità dell’evento cui si partecipa, ma soprattutto non si può sgarrare riguardo alla stagione in cui si indossa il kimono e l’età di chi lo porta.
    Se non si vuole rendersi ridicoli, bisogna che in primavera il colore di fondo sia pallido e che non manchino i fiori di ciliegio; in inverno massima lucentezza e disegni di pino, bambù o fiori di susino; sfumature più scure e calde in autunno e così via.
    I colori vivaci adatti alle ragazze devono poi lentamente scomparire fino a diventare molto sobri con l’età matura.
    Cambia nel contempo la forma delle maniche: quelle per le nubili arrivano alla caviglia, mentre per le sposate sono di lunghezza normale.
    E allora? Il gentile signor Mitani mostra il suo rimedio, un magnifico insieme di peonie, crisantemi e fiori di susino e ciliegio, insomma il classico vestito per tutte le stagioni.

    Ma è chiaro che non basta. Più radicale è il rimedio offerto da un negozio proprio di fronte, che vende kimono usati anche a soli mille euro: funziona, visto che ne smercia 40 alla settimana, mi dicono.

    Ancora più estremo è accontentarsi del kimono che un tempo era della madre e magari prima ancora della nonna. Tanto non vanno fuori moda, dice con un pizzico di dispiacere un altro responsabile delle vendite di kimono, questa volta in uno dei più lussuosi grandi magazzini di Shinjuku.
    Dagli anni Venti, in pratica, colori e disegni ispirati alla natura (fiori in primo luogo, ma anche spesso uccelli) non cambiano. Al massimo variano le dimensioni. Quanto alla collocazione, è sempre la stessa, cioè sulla spalla destra e sull’ampio orlo inferiore, a meno che, come nei komon, il motivo non si ripeta su tutto il vestito.

    Fanno affari i negozi che affittano abiti tradizionali: in tal caso bastano 3-400 euro e nel prezzo è compreso il parrucchiere; va da sé, infatti, che il kimono non può sopportare capelli lisci e dritti che cadano sulle spalle. Richiede acconciature complicate.
    Il motivo, o almeno uno dei motivi, è che in tal modo può manifestarsi al massimo la carica erotica che il kimono racchiude. E’ una carica che proviene dal più profondo passato del Giappone e che emerge nelle stampe erotiche dell’ukiyo-e non meno che nell’abbigliamento di maiko e geisha.
    Il messaggio è nella nuca, la cui bianchezza rifulge tra il nero dei capelli, tenuti in alto da spilloni e monili, e i colori della stoffa: pochi centimetri di pelle lasciati scoperti dalla parte posteriore del colletto, che va a formare una piccola curva. Pochi centimetri, ma decisivi – naturalmente se accompagnati da un giusto contorno di grazia e dignità – anche in un Giappone dove imperano tra le ragazze hot pants e microgonne.



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    Capolavori di arte grafica

    Katsumi Yumioka colleziona kimono d’antiquariato, che vende nel suo negozio di Tokyo (che si chiama Ichinokura e si trova nel quartiere Shibuya).
    Per realizzare questo volume, composto da 130 tavole, ha selezionato – privilegiando gli accostamenti di colore e i loro significati nella cultura giapponese – pezzi dal Seicento ai giorni nostri.


    Kimono. I colori del Giappone” di Katsumi Yumioka;
    Ippocampo Edizioni, 25 Euro.




    (tratto da “Meridiani”, anno XXIV, Febbraio 2011, n° 195)
  4. .
    Ci sono oggetti (ma anche cibi e comportamenti) che tutto il mondo conosce al punto da considerarli quasi stereotipi del Giappone.
    Invece sono il frutto di esperienza secolare, capace di trasformare molte espressioni umane in forme d’arte e di filosofia.
    Eccone alcuni esempi:



    Bonsai


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    Educare (“sai”) in un vassoio (“bon”): creare minialberi è considerata in Giappone la massima espressione dell’unione tra natura e arte, in un rapporto – in continuo divenire – che mira alla perfezione.
    In un millennio di pratica è stata sviluppata un’estetica che punta su miniaturizzazione, proporzione tra gli elementi, asimmetria e assenza di ogni traccia visibile dell’artista.
    Diversi gli stili che modellano le forme, dall’eretto formale (“chokkan”), che prevede un tronco drittissimo e posizione dei rami codificata, allo spezzato dal vento (“shakan”), dal boschetto o gruppo (“yose-ue”) alla cascata (“kengai”).
    Ci sono bonsai mignon, alti 3-8 centimetri, difficilissimi da realizzare, e bonsai extralarge, che arrivano a due metri.
    Se correttamente curati (rinvasi e potature di radici e tronchi sono frequenti), possono vivere centinaia di anni, passando di mano in mano.




    Katana


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    La spada del samurai ha lama curva con taglio singolo e lunghezza superiore ai 60 centimetri. Ha impugnatura doppia e rende meglio nei fendenti.
    Forgiata a partire dal Quattrocento, ha soppiantato la “tachi”: più arcuata e di maggiori dimensioni, era l’arma fabbricata tra il XII e il XIV secolo dai maestri spadai delle cinque scuole, sorte in corrispondenza delle aree di estrazione mineraria.
    A quella di Soshu/Kanagawa apparteneva Masamune (1264-1343), considerato il più grande di tutti i tempi. La leggenda narra di una sfida con Muramasa, il rivale “cattivo”, impossibile perché quest’ultimo visse nel XVI secolo.
    Così come la “tachi” era accompagnata dal “tanto” (pugnale), la katana si combinava con il “wakizashi”: il guerriero non doveva mai separarsi da queste lame più corte, considerate le guardiane dell’onore (erano utilizzate per il “seppuku” o “harakiri”, il suicidio rituale).




    Obi


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    La cintura di colore, nel karate, indica l’abilità raggiunta. Quella nera è la settima e ultima (prima vengono la bianca, la gialla, l’arancione, la verde, la blu e la marrone). C’è nera e nera, però: la vera crescita, infatti, consiste nell’acquisizione dei “dan”, cioè i gradi superiori. Questo sistema, mutuato dallo judo, fu introdotto negli anni Venti dal maestro Gichin Funakoshi, fondatore della scuola Shotokan (la più diffusa) e ideatore dell’abito (“gi”), composto da giacca e pantaloni di colore bianco. Fu in questi anni che la disciplina marziale si diffuse in tutto il Giappone, arrivando da Okinawa. Sull’isola, annessa solo nel 1879, l’arte della mano vuota (questo il significato della parola “karate”) derivava dalla combinazione di forme di combattimento e autodifesa indigene e tecniche cinesi. A praticarla erano i nobili.




    Origami


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    L’arte di piegare la carta è antichissima ed è probabilmente legata alla religione shintoista (in giapponese “carta” e “divinità” si pronunciano nello stesso modo, cioè “kami”).
    Uno degli origami più importanti è quello della gru, simbolo di immortalità. La leggenda vuole che chiunque ne pieghi mille vedrà esauditi i suoi desideri. A questo racconto è legata la vicenda di Sadako Sasaki, che a due anni fu colpita dalle radiazioni della bomba atomica esplosa a Hiroshima. A undici le fu diagnosticata la leucemia: per poter guarire si mise a piegare le sue mille gru, ma morì prima di terminare. Nel Parco della Pace c’è una statua che la raffigura con le braccia tese verso il cielo e una gru d’oro che spicca il volo. Ai piedi del monumento, una targa e tantissime corone di mille gru lasciate dai visitatori.




    Sensu


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    Il ventaglio protegge dal sole l’elaborato trucco, ed è un elemento importante nella danza tradizionale della quale le geisha sono maestre.
    Erroneamente confuse con le cortigiane di lusso, le “persone d’arte” (questo il significato del termine) studiano per anni musica (sanno suonare diversi strumenti), canto, ballo, cerimonia del tè, “ikebana” (composizione floreale), calligrafia, vestizione del kimono e conversazione. Oggi sono poche migliaia (contro le circa 80mila al principio del Novecento), alcune vivono ancora nei vecchi quartieri loro riservati, gli “hanamachi”, il più famoso dei quali è il Gion di Kyoto (la città in cui vengono chiamate “geiko”). Sono iscritte in un albo professionale (“kenban”) che le obbliga al rispetto di regole morali ed estetiche. Sono escluse le cosiddette “onsen geisha” (“geisha delle terme”), considerate quasi prostitute.




    Sushi


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    Con sushi si intende qualsiasi piatto che comprenda riso bollito e condito con aceto di riso, zucchero e sale, accompagnato da alghe, verdure e/o pesce (cotto, crudo o marinato).
    Per gli occidentali, però, è sinonimo di “hosomaki”, i rotolini di riso ripieni e avvolti nella nori, e “nigirizushi”, le fettine di “ebi” (gamberetti), “ikura” (salmone) e “katsuo” (tonno) su polpettine di riso. Si dice che questi ultimi siano stati inventati dallo chef Hanaya Yohei (1799-1858), che aprì un suo locale a Tokyo dopo un lungo apprendistato (ancora oggi per diventare maestro sono necessari almeno cinque anni al servizio di uno “shokunin”).
    Sono invece un’invenzione americana i “California rolls” (“uramaki”), quei rotolini in cui l’alga avvolge il ripieno ed è circondata dal riso guarnito con uova di pesce o semi di sesamo.




    Kama


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    Il bollitore posto in una buca quadrata (“ro”) ricavata in uno dei tatami indica che la cerimonia del tè si sta svolgendo in autunno o in inverno (in primavera e in estate il “kama” è invece collocato su un braciere appoggiato sopra i pannelli rettangolari fatti con paglia di riso intrecciata e pressata).
    La “cha no yu” (letteralmente “acqua calda per il tè”) – detta anche “chado” o “sado” (cioè “via del tè”) – è la più celebre della arti tradizionali zen e fu definitivamente codificata nel Cinquecento dal monaco buddista Sen no Rikyu.
    Sono molti gli attrezzi necessari alla preparazione del tè (che deve essere quello verde polverizzato chiamato matcha): tra questi il mestolo in bambù (“hishaku”) e il “futaoki” (un supporto anch’esso di bambù dove viene poggiato l’ hishaku).




    Kimono


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    Il kimono (letteralmente “cosa da indossare”), l’abito giapponese per eccellenza, deriva dall’abbigliamento tradizionale degli Han cinesi, divenuto popolare in Giappone nel 700.
    Modificatosi nel corso dei secoli, ha assunto la sua forma definitiva (a T, con le maniche lunghe e l’alta cintura) durante il periodo Edo.
    L’abito maschile, che generalmente è di colore scuro e opaco, è più semplice di quello femminile: il primo si compone di 5 pezzi, il secondo di una quindicina.
    La fascia (“obi”) è fermata in vita con diversi tipi di nodo (“musubi”) sulla schiena: anche per questo per la vestizione è necessario l’aiuto di più persone.





    (Articolo tratto dalla rivista “Meridiani”, anno XXIV, Febbraio 2011, n° 195)
  5. .

    In orrendo ritardo :sudo:, ma... tanti auguri cara Cuore! :ghgh:



    Spero tu abbia trascorso una piacevole giornata. :sss:

  6. .
    Seriamente, quanto possono essere pazzi i giapponesi?
    Oggi ho finalmente avuto la risposta alla mia domanda. :;tapin:
    Ho sempre avuto un debole per i puzzle (giusto un paio di settimane fa ne ho fatti incorniciare due. Che gioia! Non può dire lo stesso il mio portafoglio, però :mah:) e un mese fa, mentre curiosavo su Amazon, mi sono decisa ad acquistarne 3 dal Giappone (il mio primo ordine dal Paese del Sol Levante! :commozz:): uno da 500 e due da 1000 pezzi.
    Ieri mi è finalmente stato recapitato il pacco tanto atteso, ma un dettaglio mi ha lasciato alquanto spiazzata: le sue dimensioni.
    - E’ uno scherzo, vero? - mi sono detta. Come fanno 3 puzzle a stare dentro ad una scatola così piccola.
    Una volta aperta e scorte le confezioni, mi è sorta spontanea la domanda: - Quanto piccoli possono essere i pezzi per star dentro ad una scatolina di 9x12,5 cm? (trattasi del puzzle da 500 pezzi) -
    Dato che ieri non avevo tempo per accertarmene, il piacere di tale scoperta l’ho avuto poco fa.
    Che dire… sono rimasta letteralmente senza parole. Più che un puzzle, sembra che mi appresterò a fare un mosaico. :uuu: Ci sono addirittura in dotazione le pinzette per aiutarsi nell’assemblaggio. :sciok:
    Vi allego una foto, così ve ne potete rendere conto voi stessi (come unità di misura ho utilizzato la moneta da 1 centesimo).


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    E’ pur vero che, affrontare un’impresa con un livello di difficoltà maggiore non mi spaventa, ma questo… non sarà un po’ troppo? :sudo:
    Ma no, non mi tirerò indietro! Raccoglierò il guanto di sfida lanciatomi. Se i giapponesi sono capaci di tanto, anch'io voglio riuscirci. Ne va del mio orgoglio :ecchime: (mi sento molto samurai in questo momento :ahah:).

    Se riuscirò nell'impresa di costruzione, vi posterò le foto! :lol: :sss:
  7. .
    Pubblicando questa fan fiction temevo, dato l’argomento trattato, che il lettore si sarebbe sentito a disagio e che, una volta venute a scoprirsi le carte in tavola, l’avrebbe accantonata senza proseguire oltre.
    Di certo non mi aspettavo una tale accoglienza, né simili commenti.
    Ciò, ammetto, un po’ mi rinfranca.
    Davvero… non so che dire, se non “Grazie”, a tutte voi, di cuore, per la vostra sensibilità e gentilezza.
  8. .

    Tutti si sentono soli, Shota.
    Si è soli quando si nasce
    e si è soli quando si muore.




    E' una citazione tratta dall'anime 'Ayashi no Ceres'.
    Da quando l'ho udita mi è rimasta impressa. Mi ha colpito e mi ha fatto riflettere.
  9. .

    Titolo: "Anima tormentata"

    Autore: The Sound Of Silence

    Protagonisti:

    Breve Descrizione: Un viaggio nei recessi della mente

    Numero di Capitoli: 1

    Contiene Spoiler: No

    Contenuti Erotici: No





    - Uhmmm… -
    Un’espressione di disappunto si dipinse sul volto della ragazza, che inconsciamente si girò, rannicchiandosi su un fianco. Ma a nulla servì questo espediente, se non a destarla definitivamente.
    Emettendo un sospiro rassegnato portò una mano all’altezza del viso e con essa si stropicciò gli occhi insonnoliti, per poi aprirli lentamente, socchiudendo le palpebre un paio di volte prima che le iridi, color cioccolato fondente, si adattassero al chiarore che pervadeva lo spazio circostante. Facendo quindi leva sul gomito, sollevò il busto dal suo giaciglio.
    Do… dove sono?
    Lo sguardo vagò confuso su quella che si rivelò essere una stanza di piccole dimensioni, per poi soffermarsi sulla finestra. Osservandola, non poté fare a meno di schermarsi gli occhi con la mano. Le tende non erano state tirate la sera precedente e la luce del mattino entrava prepotente, ferendo i suoi occhi ancora avvezzi alla penombra.
    I caldi raggi del sole avvolgevano come in un abbraccio la sua esile figura, baciando il suo viso come a darle il buongiorno e facendo risplendere la sua pelle di una luminosità vaga, sottile e misteriosa.
    Rimase a fissare quella fonte di luce a lungo, con aria trasognata. Poi, un battito di ciglia la riportò alla realtà.
    Ma che…
    Senza accorgermene, mi ero incantata.
    Piuttosto, mi domando che luogo sia mai questo e… perché mi trovo qui?

    Distolse così lo sguardo dalla finestra e tornò ad esaminare l’ambiente circostante.
    La stanza, di quattro tatami e mezzo, presentava un arredamento semplice, modesto ed essenziale. Accanto alla finestra, sulla destra, prendevano posto una sedia ed una piccola scrivania su cui erano disposti alcuni libri ed un’economica bajour, mentre nell’angolo a sinistra, ripiegato ed appoggiato contro il muro, vi era un tavolino da pranzo a gambe corte.
    Lungo le pareti laterali, invece, facevano la loro comparsa una pratica cassettiera, un armadio alto ed un armadio a muro i cui pannelli verticali, di colore chiaro, erano decorati nella parte inferiore con un motivo a canne di bambù.
    Questa stanza… sì, questa stanza… mi è familiare.
    In qualche modo, è come se la conoscessi da sempre. Eppure…

    - Ah! La testa… -
    Una fitta di dolore le trasfigurò il volto, portandola a chinare il capo: gli occhi serrati in una morsa e una mano a coprirle parzialmente il viso.
    Perché? Più mi sforzo di ricordare, più il cervello sembra esplodermi.
    Non capisco…

    Fu allora che, riaprendo lentamente gli occhi, attraverso la fessura delle dita, si accorse di un dettaglio che le era del tutto sfuggito durante l’osservazione precedente.
    Proprio accanto a lei, ripiegato su se stesso, giaceva un secondo futon.
    Qualcun altro vive in questo appartamento!
    Chi mai…

    Alzò di scatto lo sguardo, puntandolo verso la porta scorrevole.
    Sollevatasi in piedi, senza pensarci, cominciò a dirigere i propri passi in tale direzione.
    Il braccio proteso in avanti, però, rimase bloccato a mezz’aria, incapace di portare a termine l’azione iniziata.
    Senza sapersi spiegare il motivo, uno strano turbamento si era fatto largo nel suo animo.
    Che stupida. Perché mai dovrei provar timore?
    Fattasi coraggio dunque, aprì la porta.
    Nulla avrebbe potuto prepararla alla scena che si profilò in quel momento di fronte ai suoi occhi.
    Stupore, disagio, confusione, si succedevano una dopo l’altra sul suo viso sconcertato.
    La luce che filtrava alle sue spalle andò a dissipare l’oscurità che avvolgeva come un pesante manto l’ampia stanza, completamente spoglia.
    Nella solitudine e nel silenzio qualcuno riposava sotto un candido lenzuolo bianco.
    Lentamente, un passo dopo l’altro, in uno stato di straniamento, si mosse verso il letto, fermandosi ai piedi di quest’ultimo.
    Con indosso un’espressione vuota si piegò in avanti e, allungando le mani, sollevò con delicatezza il fazzoletto che ne copriva il volto.
    Tu-tum
    Una donna.
    Gli occhi chiusi, i tratti distesi.
    Pare dormire.
    Istintivamente protese una mano ad accarezzarle la guancia.
    Sfiorandone la pelle, gli occhi le si spalancarono.
    - Co… Cosa…? -
    Come se avesse ricevuto una scossa elettrica, ritrasse la mano, stringendosela al petto sconvolta.
    Ha la parvenza di un essere umano, ma al tocco… sembra una statua di cera!
    Ciò che normalmente è morbido, soffice e caldo, è divenuto duro e freddo… tanto freddo.
    E’ innaturale… è sbagliato!

    In quell’istante, qualcosa scattò dentro di lei. Emozioni senza nome invasero il suo cuore.
    Immagini, ricordi. Tutto ciò che aveva cercato di cancellare per non pensare… per non soffrire… esondarono come un fiume in piena dai propri argini, venendo alla luce dalle profondità in cui li aveva rinchiusi.
    Con occhi nuovi, scrutò quel volto tanto caro.
    Incapace di trovare parole per esprimere il proprio dolore, si chinò su di lei e depose un bacio sulla sua guancia.
    Fece appena in tempo a rialzare lo sguardo per vederla dissolversi sotto ai suoi occhi.
    No! Che sta succedendo?!
    Ogni cosa cominciò a perdere definizione, facendosi confusa.
    Io… io mi sento… strana. Non riesco più… a tenere … gli occhi aperti.
    Non… non voglio…

    Prima di perdere coscienza, le parve di vedere le labbra della donna tendersi in un sorriso.
    Ma ciò non era possibile…


    Quando riaprì gli occhi, stava fissando il soffitto.
    Un sogno…si è trattato di un sogno.
    Le palpebre calarono nuovamente a celarle la vista.
    No.
    La mano scivolò sul cuore.
    Il vuoto che sento, è reale.
    Le dita si strinsero sul tessuto.
    - Mamma... -
    Una lacrima sfuggì dalle sue ciglia, rigandole il volto.





    *In Erinnerung an meine Mutti*



    Edited by The Sound Of Silence - 3/4/2016, 01:20
  10. .
    Un compleanno solo di nome.
    Certamente indimenticabile, ma nella maniera peggiore.
    E' per questo che trovare i vostri messaggi, oggi più di ieri, mi scalda il cuore in questo periodo buio.
    Sono sinceramente grata a tutte voi per aver dedicato qualche secondo del vostro tempo, non importa anche se solo per mera forma di cortesia, al rilascio di questi post.
    Non avete idea di quanto lo apprezzi.

    Grazie, grazie di cuore.
  11. .
    CITAZIONE (dezda26 @ 25/12/2015, 10:21) 

    Ohhh... ma quanto è tenero il video coi micetti!! :languo: Mi verrebbe così voglia di stringerli in un abbraccio, sono un amore. :love:


    :nat4: :nat: :nat1: :nat: :nat4:

    Detto questo, anche da parte mia, a tutte/i voi

    Buon Natale!


    :nat4: :nat: :nat1: :nat: :nat4:


  12. .
    Stando così le cose, posso propormi io per la nuova frasetta?
    E’ da un po’ che non gioco, e ammetto che un po' mi è mancato.
    Detto questo, spero gradirete la citazione che ho scelto. :lol:


    Buongiorno! Piacere!
    Tu sei me!


    Buon divertimento forumine :sss:
  13. .
    Finalmente, l’ho terminato! :ghgh:
    My Christmas tree :cici:

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    Ehm… ne sono consapevole. Non rientra esattamente nel termine “tradizionale”. :sudo:
    Mercoledì sono andata in serra, insieme con mio fratello, alla ricerca di un abete, ma siccome non avevano ciò che combaciasse alle nostre richieste, il risultato è quello che vedete.
    Ho avuto il mio bel da fare nel cercare di addobbarlo, giacché di palline manco a parlarne. :ips: Poi, passando per un edicola e guardandone la vetrina, mi sono ricordata di certe rose bianche innevate conservate in uno degli scatoloni degli addobbi in solaio.
    L’abbinamento mi è subito piaciuto. Delle lucette blu intermittenti a varie modalità e perché no, le luci lunghe che usavamo da esterno a forma di lacrima. Di fiori però ne avevo soltanto 5, che fare? L’idea ormai si era insidiata nella mia mente. Volendo attuarla, sono andata alla ricerca disperata di fiori che assomigliassero, seppur vagamente, a miei. Mi sono fatta dare una bomboletta spray per fiori di colore blu... un ultimo tocco di neve sul tronco, e... voilà.
    Mia madre ancora non ne sa nulla. Sarà una sorpresa per quando tornerà a casa dall’ospedale.
    Speriamo almeno che le piaccia. :hu:
  14. .
    Care forumine,
    conoscete una cantante di nome Melody Gardot?
    Io l’ho scoperta da poco. Attratta dal sottofondo musicale di un’esibizione, ho fatto una ricerca per venire a capo della canzone che aveva catturato il mio interesse con quelle sue intriganti sonorità blues, per non parlare della voce. Ed ecco Your heart is as black as night.
    Ma il suo repertorio è vasto e variegato. Non ho ancora avuto modo di scoprirlo interamente, ma tra i brani che ho approcciato, ci tengo a segnalarvene altri due:
    - Preacherman, un canto dolente accompagnato da uno struggente video in bianco e nero ispirato alla storia di Emmett Till, un ragazzo di 14 anni afroamericano che venne brutalmente assassinato negli anni ’50 per motivi razziali nella cittadina di Money, Mississippi.
    - Mira, che con il suo coloratissimo video e il suo ritmo trascinante ci porta in America Latina.

    Certo che il destino a volte è veramente bislacco. Una tragedia ha portato alla luce un simile talento.
  15. .





    Sandali in paglia ai piedi, corrono più di 81mila km in sette anni, due volte il giro della Terra.
    Storia dei runner dell’anima e del loro rito estremo di elevazione spirituale.
    Che passa anche attraverso un canto da ripetere centomila volte, senza mangiare né bere.




    Quando dal Monte Hiei, tra i boschi di aceri, felci e bambù che si trovano a nord di Kyoto, scendono nella città giapponese dei 1.600 templi, dei 400 santuari e delle cento geishe, la gente del luogo, nutritasi della loro leggenda sin dall’infanzia, si prostra e si inginocchia per venerarli.
    Del resto solo un santo vivente, un daigyoman ajari, sarebbe in grado di sottoporsi a un rito che prevede, il primo anno, di correre quotidianamente 29 km per cento giorni consecutivi, il secondo e il terzo la stessa distanza ma in un arco di tempo raddoppiato (200 giorni), mentre il quarto e il quinto si sale a 59 km, di nuovo in cento giorni, sino al biennio finale con 83 km quotidiani. Che complessivamente arrivano a essere 81.090, due volte la circonferenza della Terra.
    Li chiamano i “Maratoneti di Buddha”, e negli ultimi 130 anni ce l’hanno fatta soltanto in 46. Alcuni, cedendo al disonore di non essere riusciti a completare il kaihogyo, questo rito meditativo ambulante del buddismo tendai, si sono tolti la vita conficcandosi nel petto la spada o stringendosi al collo la corda, elementi che integrano il loro abbigliamento, consistente in una lunga tunica bianca. In testa portano un copricapo di erba essiccata con due protuberanze allungate a mo’ di cannocchiale. Calzano incredibilmente sandali dalla suola in paglia che si fanno da soli applicandoli alle palme dei piedi dopo averli avvolti nelle bende: ne cambiano anche cinque paia al giorno tanto si consumano. E si nutrono solo di verdure e zuppe, senza toccare alimenti ricavati da animali, mostrando una capacità di resistenza allo sforzo che viene studiata anche dagli addestratori dei corpi speciali dell’Esercito americano, in particolare dai Navy Seals, i reparti di assalto della Marina.
    Eppure quando Genshin Fujinami fa l’inchino nel giardino zen di un piccolo tempio abbarbicato sul Monte Hiei hai l’impressione di trovarti di fronte un uomo normale. Certamente muscoloso, in forma, che dimostra meno dei 46 anni dichiarati, ma di sicuro non ci si immagina di avere davanti il più conosciuto e amato di questi “runner dello spirito”. D’istinto, la prima cosa che si fa quando lo si incontra è osservarlo dal basso verso l’alto. “Tutti mi guardano subito i piedi per vedere se sono gonfi, se cammino ancora”, dice sorridendo. “E io mi tolgo i sandali per mostrare che sono lisci, senza calli. Quando corro a me sembra di galleggiare sulla terra, quasi non avverto dolore. Questa tradizione viene praticata sin dal periodo Meji (fine Ottocento), quando quelli di noi che avevano completato il training di mille giorni di corsa godevano di uno speciale posto alla Corte Imperiale ed erano i soli cui era permesso trattenersi senza scarpe al cospetto del sovrano. Ora le cose sono cambiate, la televisione si è “sostituita” a questo privilegio, le telecamere seguono gli ultimi giorni del percorso, donandoci una celebrità che non rifugiamo perché si tratta di un veicolo assai potente per far passare ai contemporanei il nostro messaggio”. Già, basta la fede per sottoporsi e sopravvivere a 81mila km di corsa in sette anni? Dormendo tre ore per notte, sfidando i serpenti che si annidano nel fogliame, dietro le rocce della foresta di bambù e felci sopra le montagne intorno a Kyoto? “Sta dimenticando il Doiri, la cerimonia del fuoco”, interrompe Geishin Fujinami . “Si tiene al termine del quinto anno di training: per nove giorni consecutivi, seduti nella posizione del loto, dobbiamo invocare il Buddha cantando per centomila volte un salmo, il Fudo myo-o (l’effetto è simile a quello prodotto dal didgeridoo, lo strumento tradizionale degli aborigeni australiani), senza toccare acqua e cibo e senza dormire. Soltanto al quinto giorno ci è concesso sciacquarci la bocca, ma senza ingurgitare alcun liquido. I novizi, a turno, contano il numero delle nostre preghiere e controllano che noi non si svenga o si crolli. In quei frangenti, come del resto talvolta anche durante la corsa, si odono le voci degli spiriti, si entra in una dimensione transeunte tra la vita e la morte. Sono i soli momenti in cui il rischio, se non la tentazione, di cedere è concreto”.
    Nessuna medaglia d’oro, né compensi in yen. Il premio è l’elevazione spirituale, l’affrancamento totale dell’anima dai nodi del mondo contemporaneo. “Il proposito alla base del costante movimento è quello di rendere esausta la mente, svuotare il corpo di tutto quello che di malevolo e vacuo si è aggrovigliato dentro di noi”, spiega Tanno Kaduko, un altro monaco che ha completato i mille giorni di moto ininterrotto. “Sino a raggiungere un momento in cui non senti più niente, ti accorgi che l’organismo è diventato uno spazio vuoto da riempire, ed ecco che allora una luce immensa rischiara la superficie, il fondale della nostra vita. Noi non viviamo in un monastero sperduto sul cucuzzolo di una montagna irraggiungibile e perennemente coperta da una coltre di nebbia, conosciamo la vita contemporanea, guardiamo i film e lo sport in televisione, seguiamo con rispetto i maratoneti che gareggiano alle Olimpiadi. Ma la nostra è un’altra disciplina: è una meditazione in continuo movimento, per compiere la quale non c’è bisogno di andare troppo veloce, proprio perché si tratta di un tempo prezioso per l’anima, per riflettere sull’esistenza e sul modo migliore di viverla. Se ho trovato il segreto della vita percorrendo così tanti chilometri per un numero così altro di giorni consecutivi più volte nell’arco temporale di sette anni? Certo, ma non è finita qui. Vivere è una sfida continua, non si smette mai di conoscere. Però, questo sì: attraverso gesti di resistenza fisica estremi sono diventato più saggio”.
    Tanno concede il permesso di seguire per un giorno un monaco che ha appena cominciato il suo kaihogyo. Poco dopo la mezzanotte, una volta riempito di invocazioni alle divinità il quaderno di preghiere, brandendo una lanterna, il maratoneta di Buddha intraprende il suo percorso al buio sulla montagna. Il tragitto è pieno di saliscendi, che vengono percorsi a volte correndo a volte camminando a passo svelto. Il suo canto squarcia il buio e interrompe la nenia del canto degli uccelli notturni. A ogni monastero e santuario – in media ne incontrerà oltre 250 al giorno –, questo runner coi sandali di paglia e senza borracce, si fermerà per pregare, e spesso sarà avvicinato e seguito (un po’ come accade a Tom Hanks nel film 'Forrest Gump') da accoliti in silenzio, mossi dal desiderio di raccogliere un po’ di quell’alone di santità che emana dalla sua bianca figura. Non lo si sentirà mai lamentarsi della fatica, nemmeno allo scoccare della quindicesima ora, quando lo si vedrà buttarsi stremato sopra il suo giaciglio. Esausto, sì, ma radioso in volto, come chi sa di avere compiuto altri 42 km verso il traguardo dell’illuminazione.


    (tratto da SportWeek n. 17 del 03/05/15)


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    In una rivista che mi è capitato di leggere, mi sono imbattuta in questo articolo che ho pensato di condividere con voi.
    Una scoperta che mi ha letteralmente lasciata a bocca aperta. Una storia e delle figure che hanno davvero dell’incredibile.
    Il Giappone non smette mai di meravigliarmi. :uhm:


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